Intervista con

Gianni Amelio

membro della Giuria

Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia 1992

Venezia Lido, settembre 1992
D. Puoi farci un confronto tra la Mostra del Cinema di Venezia e quella di Cannes, visto che in tutte e due hai avuto un ruolo di primissimo piano?
R. La differenza forse è più esterna che sostanziale perché sia Venezia che Cannes vorrebbero la stessa cosa: vorrebbero dei buoni film. Questa è l'unica cosa che un grosso festival desidera. Come si arriva alla selezione di buoni film e come si arriva a creare un buon festival? Si arriva per tantissime strade: le strade di Cannes procedono in un certo modo, le strade di Venezia procedono in un altro. E lì arrivano quindi le differenze. A Cannes, per esempio, quando si attraversa il tratto di strada davanti al palazzo del cinema si sente della musica... sembra niente, sembra niente, però è già una cosa. Basta passare davanti al palazzo del cinema di Venezia e sentire quel silenzio un po' raggelante. Uno entra nella sala di Cannes per vedere un film oppure per presentare un film e sente musica. E questa musica non è una musica casuale, è la musica della colonna sonora del film che viene presentato quella sera... sembra una sciocchezza ma è proprio questa parte di esteriorità che rischia qualche volta di diventa re importante quasi quanto la bellezza del film che poi uno va a vedere. Quello che Cannes ha in più rispetto a Venezia è la cornice e l'organizzazione in qualche modo «mondana» in un accezione non negativa: Cannes è un festival separato dal parastato... agisce in un modo un po' più semplice, più facile. Il direttore di Cannes decide una cosa e un secondo dopo può proporla e un'ora dopo questa cosa può essere accettata; il direttore di Venezia no! Perché qualunque spostamento va vagliato da una serie di persone, da una serie di organismi, e quindi qualsiasi spostamento, invece di farsi in mezzo secondo, si fa in un mese: ci sono delle cose che in qualche modo rallentano il cammino di Venezia a livello, ripeto, ancora di forma. Tutti auspichiamo che certe cose a Venezia vengano radicalmente cambiate. In questo senso auspichiamo anche un avvicinamento alla forma di Cannes. Per quanto riguarda invece i contenuti il mio discorso rischia di ribaltarsi completamente perché Venezia, che tra l'altro non si chiama festival ma si chiama mostra internazionale d'arte cinematografica, ha spesso, o quasi sempre, dei criteri, di selezione e poi di giudizio, in qualche misura più rigorosi. Ed è per questa ragione che ci sono dei film che magari a Cannes non avrebbero accesso e che invece hanno accesso a Venezia; ci sono delle cinematografie minori che a Cannes non arrivano al concorso.
D. É un dato positivo...
R. É un dato estremamente positivo per Venezia perché se un compito i festival devono avere è anche quello, non di pubblicizzare e di far riconoscere quello che già si conosce, ma di aprire la conoscenza degli spettatori a delle cinematografie e a dei mondi sconosciuti. E questa è una peculiarità che Venezia ha sempre avuto. Ci si potrebbe domandare allora perché non esiste un terzo festival al mondo che concili gli aspetti positivi di Cannes con quelli di Venezia? Oppure perché Cannes non diventa Venezia e Venezia non diventa Cannes? Perché probabilmente due festival devono anche differenziarsi e quindi forse è inutile anche la contrapposizione che noi facciamo tra due festival. La considerazione forse più seria che possiamo fare invece è un'altra. Il cinema si sta impoverendo se ci rapportiamo ai decenni passati quando si potevano vedere delle selezioni, a Cannes e a Venezia, che leggendole adesso uno si chiede come fosse possibile che in un festival solo ci fossero tutti questi titoli importanti. Era possib ile perché il cinema era più ricco, perché c'era più salute a livello creativo. E adesso questa salute si è un po' deteriorata mentre il numero dei festival si è addirittura moltiplicato. E che succede? Intanto delle lotte, palesi o segrete, per accaparrarsi i titoli migliori, poi ci sono le battaglie sulle date e a questo proposito per molti paesi la data di Cannes è più favorevole rispetto alla data di Venezia perché moltissimi paesi fanno uscire i loro film d'estate (gli americani hanno le loro grandi prime soprattutto d'estate e l'Italia è abbastanza un'eccezione in questo senso). E quindi questa rivalità probabilmente è destinata anche a non sanarsi mai. Altri aspetti a favore di Cannes... A favore di Cannes ci può essere il mercato, il mercato che qui non c'è. E allora perché qui non c'è il mercato. Non c'è il mercato anche perché non ci sono le sedi adatte: il Lido è il Lido, cioè il festival si svolge al Lido di Venezia che non è che sia un luogo super attrezzato per il cinema. Infatti oltre al Palazzo del cinema ci sono delle piccole sale: c'è una saletta dentro il Casinò, c'è una saletta qui all'Excelsior... Invece a Cannes, a parte il Palazzo del cinema che è stato costruito quattro o cinque anni fa, a parte il vecchio palazzo del cinema che adesso è diventato la sede Quinzene, ci sono tutti i cinema di Cannes e riva Antibes è «affittabile» da tutti quelli che vogliono presentare i loro film, anche non selezionati per il festival, ai distributori e ai compratori, per cui c'è tanta gente che non ha dei film in concorso e che però va a Cannes per comprare o vedere films... Questo è un aspetto estremamente importante perché il cinema sopravvive anche e sopr attutto quando riesce ad essere anche un'industria. E questo è un aspetto positivo di Cannes che credo chissà se Venezia dovrebbe copiare... però, in quest'ultimo caso, bisognerebbe andar via dal Lido. E come si fa ad andare via dal Lido se non attraverso tutta una serie di movimenti che poi passano sempre per la politica... Questo è un quesito che non risolveremo certo noi: né io rispondendovi, ne voi facendomi questa domanda.
D. Il tuo ultimo film (Il ladro di bambini) contiene delle scene che sono state girate all'interno di un oratorio salesiano. Cos'era Genzano?
R. Sì, esattamente.
D. Tu conosci i salesiani?
R. No... Io ho pochissima cultura su quel campo e sono arrivato a quell'istituto semplicemente perché cercavo un istituto. Tanto è vero che poi abbiamo tolto qualsiasi riferimento... tra l'altro non credo che sia aperto al ricovero delle femmine, mentre io ho fatto vedere che si ricoveravano le femmine... l'abbiamo utilizzato per ragioni di comodità.
D. Quando ti hanno avvertito di essere stato scelto per far parte della Giuria della Mostra che cosa hai provato?
R. Niente! Niente di speciale... Io ero già stato in alcune giurie, anche a Venezia... Non ero nella Giuria ufficiale, ma in altre giurie secondarie... Però non sono uno che ha delle passionalità e degli sconvolgimenti interiori per questo aspetto del cinema. Io le mie emozioni, sinceramente, le conservo per il lavoro e non le brucio per delle cose che poi hanno anche dei limiti evidenti. Non è che questo fatto che io sia giurato mi trovi in chi sa quali... anzi bisogna prendere la situazione anche un po' di ironia e di riscatto perché se no non si finisce mai. Sono giudizi sempre opinabili quelli che possono arrivare da un gruppo di persone, undici o dodici, riunite da tutte le parti del mondo a vedere tre film al giorno per cui... L'errore è anche abbastanza facile e bisognerebbe non considerare questa cosa come una questione di vita o di morte né per i film premiati, né per quelli che devono premiarli, cercando però di prenderla sul serio. Io la prendo sul serio perché mi interessa il cinema, mi interessano i film, però sono sempre io che giudico, con tutti i miei limiti e soprattutto con il mio gusto personale. Certe volte capitano delle giurie che amano determinate cose e altre giurie che non le amano. Per certi film è fondamentale essere fortunati, come un po' per tutti. Ci sono film che capitano con un presidente di giuria giusto, non nel senso di giustizia, e alcuni film possono piacere ad un determinato presidente di giuria ed altri no. Ci sono stati negli ultimi anni dei verdetti, soprattutto a Cannes, che erano completamente e totalmente firmati dal loro direttore: senza il loro direttore non avrebbero ottenuto gli stessi riconoscimenti. Ad esempio Wim Wenders quando è andato a Cannes, è stato premiato con due premi con «Sesso, bugie e videotape»... magari con un altro presidente di giuria più conformista e di cultura diversa sarebbe stato considerato meno.
D. Puoi dare un suggerimento a chi vorrebbe iniziare questo lavoro, visto che noi facciamo parte di un'associazione che ha come riferimento anche e soprattutto quella parte della società giovanile che vuole entrare a lavorare nel cinema?
R. La cosa che consiglio, partendo dal presupposto che magari uno vive in provincia, magari uno ha proprio delle difficoltà tecniche per arrivare ad un regista, ad una produzione ecc., è quello di scrivere. É la via più facile. Non nel senso di scrivere delle sceneggiature perché le sceneggiature hanno bisogno anche di un minimo di scuola tecnica per essere apprezzate ed apprezzabili, però tirare fuori delle idee e buttarle in cinque pagine dattiloscritte ed inviarle a qualcuno, magari ad uno sceneggiatore conosciuto, uno sceneggiatore magari anche generoso e quindi capace di parlare poi anche con chi ha scritto... Può essere un mezzo che non costa nulla... se io putacaso ricevessi un manoscritto, lo leggerei e non è che lo prendo e lo butto nel cestino... Questa è una cosa che non costa niente e metti che ci sia una cosa molto bella, uno dice: io la faccio al produttore, la faccio leggere ad un'altra persona, magari a me non interessa però c'è qualcuno... Uno può provare finché magari l'idea giusta arriva e l 'idea giusta magari viene comprata, l'idea giusta gli permette di partecipare ad una prima fase... finché piano, piano non conosci delle persone e... la conoscenza poi è l'unica cosa che conta.
D. E la tua personale esperienza qual'è stata?
R. Io ho fatto l'assistente volontario presentandomi ad un regista e chiedendogli se mi prendeva come volontario. A me è capitato di essere io solo a presentarmi a questo regista.
D. Chi era?
R. De Seta ed è successo moltissimi anni fa quando avevo 19 anni. Per fare il mio caso, adesso in media ho venti richieste al mese. Inoltre, allora, un regista poteva prendere un assistente senza assicurarlo, mentre oggi c'è l'obbligo dell'assicurazione che è un fatto economico e di fronte al quale il produttore è sempre meno disposto a soddisfare queste richieste anche se il regista insiste. E ancora, se si vive a Roma è più facile...
D. Un insieme di cose quindi...
R. Un insieme di cose, sì... Bisogna non demoralizzarsi alla prima, alla seconda, alla terza sconfitta considerando che queste cose qua capitano a tutti, sono successe a tutti, e se uno insiste poi magari l'occasione arriva.
D. A proposito di scrivere. Al ritorno dall'ultimo festival di Cannes scrissi che con Amelio e con «Il ladro di bambini» in particolare, il cinema italiano poteva camminare a testa alta sulla Croissette. Questa affermazione può essere riferita al cinema italiano in generale, oppure solo ad autori come Tornatore, Amelio e pochi altri?
R. Io non lo so, anche perché poi il cinema italiano è fatto dall'insieme di quelli che fanno questo lavoro in Italia.
D. Riguardo al cinema italiano presente a Venezia?
R. Fuori dal concorso io, purtroppo, ho visto solo due film; vorrei vedere i film della vetrina ma non ci riesco perché la mattina abbiamo riunione di giuria e quindi non saprei dire anche perché sono quasi tutti debuttanti e quindi non li conosco e sbaglierei se dessi un giudizio. Non credo che sia un momento facile, da un lato, e nemmeno un momento di crisi nera come si ha l'abitudine ormai di dire, dall'altra. Sta diventando un'abitudine, quasi un luogo comune, ripetere siamo in crisi. Intanto il cinema italiano quantitativamente non è in crisi perché ci sono tanti innovamenti a livello di nomi che compaiono all'orizzonte. Continua ad essere invece in crisi la sala cinematografica il che è una tragedia per noi, per voi e per chiunque... Si producevano cioè più film una volta e questi film comunque arrivavano nelle sale. Adesso se ne producono di meno però la maggior parte nelle sale non arriva mai per cui c'è questa doppia difficoltà. Per uscire da questa situazione probabilmente bisogna fare tutti quanti a utocritica, tutti quanti pensarci due o tre volte prima di fare un film perché non è difficile fare un primo film se c'è un certo tipo di assistenzialismo che non necessariamente vedo in senso negativo, ma di cui però osservo anche l'aspetto certe volte problematico, deleterio addirittura direi, quando magari si decide di buttarsi magari troppo in fretta nella mischia. Mi ricordo che all'epoca mia, quando ho iniziato ad entrare in questo lavoro non pensavo di fare il regista; cioè non dicevo «voglio fare...» No! «Intanto entro nel cinema... vediamo che succede...». C'era questa idea di non decidere mai e anch'io non scrivevo mai una «riga di idea» perché pensavo di non essere pronto e rimandavo sempre tutto a domani. Adesso invece c'è un po' la volontà di proporsi subito come autore e magari si fa un'opera prima... e l'opera prima non arriva in sala perché la sala in crisi, per le molte ragioni che abbiamo detto come le istituzioni che non esistono, perché ce ne sono una o due, l'esercizio che è settore terrib ile... nelle piccole città stanno scomparendo le sale, le grandi città sono tutte in mano alla stessa persona, per cui non ci sono più spiragli. Però, a questo punto, si unisce a questa crisi anche magari una certa immaturità di linguaggio o di contenuti, cioè c'è un certo azzardo magari nel proporsi con un primo film e... però il secondo stenta ad arrivare!
D. Spesso vedendo i film americani si nota la presenza di una tecnica molto evoluta che in Italia probabilmente ancora non esiste. E la tecnica influisce anche sul linguaggio e quindi sull'espressione...
R. Non è tanto questo. Dobbiamo aver chiara una cosa: il cinema americano è stato sempre ed è ancora un cinema di generi.
D. Ma ad esempio Spack Lee..?
R. Spack Lee fa cinema d'autore all'interno di un genere. In America il cosiddetto autore all'europea è quasi inconcepibile. Quando noi parliamo dei grandi nomi anche classici del cinema americano, ci riferiamo quasi esclusivamente a cineasti che hanno lavorato all'interno di un genere; quando noi nominiamo il signor John Ford, e ci leviamo tanto di cappello e ci inginocchiamo, non dobbiamo dimenticare che lui diceva «I make westerns», lo diceva lui stesso, «Io faccio westerns». In Europa, Francia e Italia in primis, invece c'è sempre stato un po' il concetto dell'autore, cioè del regista che imposta personalmente un discorso, che quasi sempre scrive un copione e che è tanto più nobile quanto meno è legato ad un veicolo preesistente. In Italia è esistito un solo genere, che adesso sta in qualche modo languendo - perché si è trasformato - che è la commedia. La commedia che non a caso è stata detta commedia all'italiana perché aveva una sua cifra molto riconoscibile, cioè guardare, che poi secondo me nasce dal n eorealismo: guardare la realtà con una lente deformante, però intanto mantenere questo contatto con la realtà. Guardarla con ironia, guardarla anche con lo sberleffo... però sempre guardare la realtà. Aldilà della commedia da noi ci sono stati non dei generi ma dei filoni e i filoni derivavano e derivano sempre dai generi americani; noi abbiamo fatto addirittura gli westerns (spaghetti western), c'è stata tutta un'epoca in cui c'erano addirittura delle imitazioni 007... cioè delle cose fatte di «seconda mano» e in qualche modo per sfruttare dei successi d'oltre oceano. Perché tutto questo? Perché noi da epoca ormai abbastanza lontane siamo dei colonizzati da parte americana. In altre parole non è solo il cinema che subisce questa colonizzazione ma anche tanti altri aspetti, non solo della cultura in senso stretto, ma anche della cultura degli abiti che indossiamo, del chewing gum che mastichiamo e via discorrendo, insomma. Non è un caso che il cinema americano abbia questo grande peso anche economico perché pe r anni, anni e anni si è infiltrato proprio nel nostro gusto. E quindi è naturale che tu poi faccia questa considerazione...
D. Però continuerà a rimanere colonizzatore se dal punto di vista tecnico non ci attreziamo...
R. Il fatto tecnico non esiste, non esiste perché è come se tu ad un certo punto paragonassi una casa costruita da un architetto italiano con un grattacielo costruita da un architetto americano nel contesto urbano di una grande città americana. In altre parole tu devi anche guardare in che cultura si situa qualunque espressione cinematografica; non bisogna commettere l'errore di considerare il cinema come una macchina in qualche modo astratta che può produrre delle cose qui o altrove allo stesso modo... no... non esiste! Il cinema americano è tecnologicamente avanzato in un certo modo perché tutta la cultura americana è su una certa direzione. Non ne voglio fare solo un discorso economico, ma è anche quello un discorso da fare. Un film americano ha un determinato costo che comprende anche tutta una serie di tecnologie che noi ci sogniamo di avere e che magari non avremo mai. Quando io o altri vanno in America e qualcuno ci chiede «Quanto è costato il tuo film?», noi gli diciamo quanto è costato e questi si met tono a sghignazzare. Per esempio col costo di «Nuovo Cinema Paradiso» loro non ci fanno nemmeno la preparazione di qualunque film... Quando io dico che «Il ladro di bambini» è costato due milioni di dollari loro mi ridono in faccia perché dicono che con due milioni di dollari loro ci pagano l'acqua minerale per tutta la troupe durante la lavorazione. Quindi bisogna tener conto anche di queste cose, ma il problema non è qui; il problema è proprio l'egemonia culturale americana che capillarmente ha ormai proprio invaso l'universo intero. Quindi l'Europa subisce da anni. E magari adesso ce ne accorgiamo in modo molto più evidente perché abbiamo anche e soprattutto la televisione americana che viene da noi... però è un processo che dura da anni... Esempio tecnico: ti sei mai reso conto che le grandi case americane hanno delle filiali in Europa; a Roma esistono dei grandi uffici, enormi uffici, della Universal oppure della Fox o di altre, per cui hanno degli impiegati, la casa madre sta a Los Angeles e loro tutti i film della Paramount, della Fox o della Universal, automaticamente li distribuiscono da noi perché la «via» è già pronta, è già spianata: qualunque pratica, dal doppiaggio all'edizione, alle copie, viene fatta da loro stessi tramite la filiale italiana; hanno la lingua... l'inglese è la lingua più parlata nel mondo, a parte lo spagnolo che però cinematograficamente vale poco. Quindi è normale che la loro capacità di espansione sia imparagonabile alla nostra. Non dobbiamo commettere l'errore di metterci in competizione con il cinema americano perché poi possono nascere delle disillusioni spaventose. Ad esempio... uno dice «Voglio diventare competitivo» - c'è questa parola orrenda che non voglio nemmeno usare - «per cui adesso prendiamo - dato che siamo bravi pure noi e la differenza è solo di tecnologie, le tecnologie americane; gli facciamo vedere che siamo anche noi capaci...» Eh, no! Non dovremmo essere capaci gli stessi film, così come loro non sono capaci di fare i film nostri. La forza nostra quale può e ssere? Quella di essere talmente legati alla nostra cultura, e di restarci legati, sapendola esprimere, che poi loro ci riconosceranno. L'esempio che ho fatto prima a proposito del film di Tornatore lo dimostra. «Nuovo Cinema Paradiso» è stato un successo immenso in America; è un film girato in italiano, è un film che si svolge in Sicilia, che racconta una storia strettamente locale addirittura, eppure è il film italiano di più grande successo, in America, di tutti i tempi... il film italiano che ha più incassato in America. C'era, adesso sta diminuendo, anche il vizio di girare in lingua inglese per cui avevamo attori italiani e registi italiani costretti a usare la lingua inglese perché si pensava, e si purtroppo ancora si pensa, che questo fatto faciliti l'esportazione. Non è vero. Anzi spesso si ottengono degli ibridi tremendi che non piacciono né qua né altrove.
D. Come ti comporti sul set? Rimani la persona calma ed affabile, oppure muti atteggiamento e magari, come fa Lattuada, urli?
R. Io non urlo mai per un semplice fatto. A parte che lo conoscono tutti ma io non l'ho mai visto urlare... Ma io appartengo ad un cinema diverso da quello che faceva Lattuada. Lattuada quando urlava faceva star zitta la gente perché quella gente sentiva il potere del capo. Adesso non lo sente nessuno e se tu vuoi importi devi parlare con bassa voce. Allora le persone, dal momento che tutti quanti devono capire cosa fare e quindi devono saperlo dal regista, sono costrette a stare zitte. Quindi il mio trucco è esattamente il contrario: io parlo pianissimo e quindi c'è silenzio. Se uno urla, cominciano a urlare tutti quanti... cioè si alza il volume di tutto quanto il set. Siccome non ho problemi di udito e poiché i collaboratori me li scelgo, li conosco ecc. ecc., urlo solo con me spesso ma non si sente, gli altri non lo sentono, perché i problemi sono solo miei.
D. Ma se per esempio c'è un attore che ripete tre volte la stessa scena senza mai riuscire a farla come vuoi tu, porti pazienza?
R. Chi l'ha scelto questo attore? Sia che sia bravissimo, sia che sia meno bravo, devi pilotarlo tu. Non esistono attori cani, esistono registi non capaci di dirigerli. Anche quello che passa per essere di serie B, se puta caso tu scrivi un ruolo vicino alla sua natura, diventa bravo. il cinema non è teatro. Nel teatro l'attore deve essere in possesso di talento teatrale, che è un insieme di talento, di ispirazione e di tecnica anche perché chi deve stare su un palcoscenico, per fare un esempio, deve farsi sentire anche da chi siede lontano e quindi deve essere capace di impostare la voce anche come volume. Nel cinema questo non avviene. Nel cinema c'è soprattutto la macchina da presa; la macchina da presa è un mezzo che sta tra me e lui e io, già mettendo un certo obiettivo, quindi avvicinandomi o allontanandomi da lui, lo condiziono in un certo modo. Già mettendolo a sedere lì piuttosto che qui già lo condiziono perché lì c'è in sole e qui no, per esempio. Se io gli faccio la luce di taglio o una luce piatta lo condiziono ancora; se io gli metto un vestito o se gli parlo in un certo modo... c'è tutta una serie di elementi di cui il regista può disporre.
D. Quindi un attore è sempre in mano tua?
R. Un attore al cinema non è mai libero. Qualche volta capisce di non esserlo, altre volte si illude invece di esserlo, però chi manovra tutto è il regista. Inoltre il regista ha la tavola di montaggio che vuol dire tutto. Una inquadratura che all'attore è parsa particolarmente bella, nella quale lui ha dato il meglio di sé, il regista può tagliarla, può cancellarla, può non montarla. Quindi il film è sempre in mano al regista, o al produttore: dipende dal grado di libertà che il regista ha nel suo lavoro. Ci possono essere quelle situazioni produttive in cui un regista è più libero e altre in cui lo è meno, però c'è sempre qualcuno che decide; magari decide il produttore, però l'attore quasi mai tranne il caso in cui l'attore sia talmente potente tanto che condiziona lui tutto. Se ad esempio io lavorassi con De Niro, il signor De Niro probabilmente avrebbe talmente più potere contrattuale rispetto a me che avrebbe delle garanzie... potrebbe anche succedere che lui dicesse «l'ultima parola in montaggio la dico io». E allora il problema è di scegliersi i compagni di viaggio giusti, oppure combattere almeno per averli.
D. Il tuo lavoro di ricerca nel soggetto della sceneggiatura sembra che poi, al momento del set, sembra che lo dimentichi. É così? E poi è vero che lavori solo su commissione?
R. Intanto nessuno ha stabilito che la sceneggiatura è un testo sacro. La sceneggiatura è un ibrido; la sceneggiatura non è lo stadio finale di un film; è semplicemente un momento di passaggio, una specie di ponte che tu devi necessariamente attraversare per arrivare dall'altra parte. Mettiamo che ci sia l'acqua di mezzo e tu non puoi, in altre parole, fare questo salto - e il salto sarebbe quello di improvvisare tutto - e allora ti costruisci questo ponte, che può essere più o meno solido... è chiaro che uno vuole il ponte solido per non cascare nell'acqua e per avere in qualche modo le spalle coperte, però devi arrivare dall'altra parte e lo scopo di tutto, anche della sceneggiatura, è quello. E allora come ci puoi arrivare? Ci puoi arrivare a seconda di quello che è il tuo grado di coinvolgimento in quello che stai raccontando... ci sono dei film nei quali tu hai bisogno veramente di scrivere molto prima: per ragioni tue, per.. Faccio un esempio: stai facendo un film in costume ambientato negli anni Venti, fine Ottocento primi novecento; non puoi decidere la sera prima che cosa girare o dove girare perché altri collaboratori tuoi devono per forza predisporre a quel tipo di impresa. Perché devono costruire la scenografia oppure scegliere un posto dove non ci siano luoghi moderni ecc. ecc., contemporaneamente la stessa battuta del copione magari è diversa perché nel fine Ottocento parlavano in modo differente da noi oggi. Per queste ragioni se tu fai un certo tipo di film la sceneggiatura avrà un peso più forte rispetto all'improvvisazione che tu vuoi dare. Se fai un film come quello che ho fatto io - io ho fatto anche film in costume dove agivo in un'altra maniera... - in questo io ho detto fin da quando scrivevo la sceneggiatura... io sapevo che il lavoro grosso l'avrei dovuto fare al momento per tantissime ragioni. Intanto perché avevo degli attori - i due bambini - che non possono leggere e imparare a memoria un testo e per questa ragione era inutile che lo stesso testo scritto a tavolino fosse più di tanto pr eciso... Però io in questi casi devo sapere dove vado a parare per cui in realtà la sceneggiatura che io avevo era una sceneggiatura adatta a quello che poi io avrei fatto dopo, cioè era un testo che mi permetteva poi questa possibilità di riscrittura.
D. Una sorta di canovaccio?
R. Sì, ma anche molto solido. Io scrivevo delle cose però poi dicevo le verificherò perché avrò la possibilità di verificarle. Certe volte davvero io ho deciso a distanza di un'ora di cambiare set, di cambiare posto dove girare. Questo accadeva perché se per esempio avevamo deciso di girare su questo terrazzo e nel frattempo vedevo un ambiente diverso, non era un problema spostarci. Se io invece avessi costruito, perché magari il film si ambientava ottant'anni fa, non sarebbe stato facile e quindi di volta in volta ci sono regole diverse. Per quanto riguarda la domanda della commissione, io quando ho fatto quell'affermazione intendevo dire che non si è autori in modo assoluto e solo se uno scrive da sé le proprie cose, se uno ha l'idea... Alé René, che è uno dei massimi autori europei da trent'anni non ha mai scritto una parola di sceneggiatura per tutti i suoi film nonostante sia autore. Eppure tu riconosci un film di René da lontano per cui io dicevo questo perché mi è capitato di avere delle proposte su delle cose apparentemente lontane sul momento dai miei interessi. Poi, magari, ho detto va bene, questa è una cosa che riesco a raccontare e l'ho fatto senza sentirmi sminuito perché c'era una produzione a decidere prima di me in quel film: basta inserirsi in modo personale anche all'interno di una cosa apparentemente lontana o voluta da un produttore.
D. Per te importante è quindi fare ciò che capita per imparare?
R. Io penso che sia importante fare quello che si sa fare, quello che si sente di sapere fare, magari cercando qualche volta di fare un passo un po' più avanti però l'importante è non barare con se stesso... Se qualche volta barare con gli altri è al limite pure lecito, barare con te stesso rischia di essere logorante: credi di possedere una certa cosa che invece è lontana da te. Quindi fingi di farla, la fai e la fai male.
D. Come è articolato il lavoro della giuria, cioè la vostra giornata come è organizzata e come si svolge il vostro lavoro?
R. Può essere fatto in modo assolutamente diverso e non c'è uno che faccia la stessa cosa degli altri. Esempio: c'è qualcuno che ama vedere i film da solo, c'è qualcuno che ama vederli con il pubblico, c'è qualcuno che ha bisogno di prendere appunti, c'è qualcuno che ha bisogno di vederlo due volte... è diverso. Per quanto mi riguarda io voglio vedere i film sempre con il pubblico, li voglio vedere fino alla fine; qualche volta c'è qualcuno che si innervosisce: «Sì, sì, ho capito tutto, non mi piace». Può capitare anche a me però capita se sei spettatore e hai pagato il biglietto sei nel tuo pieno diritto anche di urlare in sala... qui invece no! Poi, per quanto riguarda le riunioni nostre, sono delle discussioni che si articolano sempre in modo differente e a seconda del film che uno ha di fronte.
D. Come impostate la discussione? Analizzate il soggetto, la musica ecc. oppure seguite un altro criterio?
R. Il criterio fondamentale è l'emozione che uno ha ricevuto dal film. Poi, all'interno di una giuria composta da dieci persone, c'è qualcuno che ama un film e qualche altro che lo ama di meno, però ci sono delle conversazioni sui film dove si ascoltano le ragioni dell'uno e dell'altro: ci può essere qualcuno che può amare una cosa e dice perché la ama, un altro che invece la detesta e dice perché la detesta. In genere si parla di tutti e di tutto di questi film, e man mano che si procede con le riunioni si eliminano i film che non riscuotono interesse. Questo lo si fa per un fatto tecnico, per non arrivare l'ultimo giorno a dover decidere. Ma è naturale, non ci sono regole, è la situazione che poi ti detta delle regole.
D. Ci sono pressioni e se sì di che tipo? Puoi raccontarci qualche aneddoto a questo proposito?
R. Su me sicuramente no. Ma in generale non credo sia possibile perché non è possibile arrivare a premere dodici persone così diverse, anche provenienti da latitudini diverse. Io non conoscevo la maggior parte dei giurati... Come può una persona che è interessata puta caso ad un film contemporaneamente premere su di me e sugli altri. Non è possibile... uno ci rinuncia subito.. l'eventuale «premitore» sa che non può farcela.
D. Come ti è nata l'idea di fare «Il ladro di bambini», da quale immagine, da quale emozione...?
R. Non c'è un momento preciso. É venuto fuori da un insieme di cose che uno non riesce a capire nemmeno...
D. Tu hai incontrato «quei bambini» nella vita?
R. «Il ladro di bambini» in realtà l'ho fatto quarant'anni fa... certe cose uno se le porta appresso. Ermanno Olmi mi ha detto una cosa che più mi ha commosso di tutte le critiche italiane e straniere messe insieme. Ermanno Olmi ha detto la cosa più bella - l'ha detto alla televisione una sera -: «Tu non sei il regista di questo film. Tu sei stato scelto da questi personaggi per farli conoscere agli altri, cioè è come se questi personaggi e questa storia esistessero già da tanto tempo, non riuscissero a venire alla luce, e hanno scelto te per raccontarsi». E questo è molto bello. Questo per dirti che la storia l'abbiamo scritta in poco tempo. C'è un grandissimo sceneggiatore italiano, uno dei più grandi, Furio Scarpelli, che dice una cosa molto bella e molto vera: «I fatti, quando tu scrivi un soggetto, se non ce li hai subito valli a comprare dal tabaccaio insieme alle sigarette perché chiunque può venderti un fatterello; quello che nessuno ti vende è il sentimento e l'idea che poi è ciò che tu vuoi dire effe ttivamente. Poi se tu hai queste cose dentro e non hai i fatti, vai dal tabaccaio e mentre compri le sigaretti gli dici: «Mi dia un etto di fatti». Bene, il tabaccaio te li da. Ed è vera questa cosa. Non è tanto il fatto della storiella, perché... Nel mio film c'è una storia che potrebbe essere anche un fatto di cronaca, però il fatto di cronaca uno lo può raccontare in cento modi diversi; l'unica cosa che conta al cinema è il linguaggio... l'unica cosa che conta è il linguaggio. A questo proposito potete fare un esercizio: inventate una storiellina piccola, piccola, oppure prendete un fatto di cronaca... aprite un giornale, andate alla cronaca, prendete un fatto e datevi come esercizio di raccontarlo ad un'altra persona che non l'ha letto. Poi, dopo, scambiatevi i foglietti... vedrete che ciascuno avrà raccontato la stessa storia in maniera diversa. E chi l'ha raccontata meglio, non è che lo decidete voi, ma lo decide quel lettore che non ha prima letto il giornale. E questo... Perché ad esempio è così import ante il pubblico? Un errore che noi spesso abbiamo fatto è sempre quello di essere molto narcisisti per cui il compiacimento... in qualche modo il sentire che se capiamo noi hanno capito tutti... Invece è fondamentale che ci sia lo spettatore, è fondamentale perché altrimenti non valgono niente tutti gli sforzi, anche abbastanza pesanti, che tu poi devi fare... É il lavoro più stressante che ci sia al mondo e, per fortuna, dura poco... Nel senso che lo stress dura soprattutto il tempo delle riprese: Quello sforzo lì è ripagato solamente dopo se la cosa comunica. Non c'è niente di più triste di un film senza spettatori. Quando uno - a me è capitato - entra in sala e c'è una persona, poi ne entra un'altra e la prima intanto se ne va... É terribile... poi vedere una sala con le sedie sguarnite, sapendo che il film è stato fatto proprio perché quelle sedie fossero occupate...
D. Non credi che a volte il pubblico sia facilmente spinto a vedere o non vedere un film?
R. Si è parlato prima della forza del cinema americano... ma la forza del cinema americano non si è costruita in un giorno. La cultura americana, agendo non solamente attraverso i film, ma agendo attraverso tutta un'altra serie di canali e di altri mezzi, ha formato un certo pubblico. E il pubblico che si forma in un determinato modo amerà certe cose. Questo è il vero guaio, il vero dramma... bisogna andare verso il pubblico ma non come si dice a lisciargli il pelo, cioè non è che tu devi fare quello che il pubblico ti domanda, perché magari allora sbagli tu e sbaglia il pubblico. Però devi fare in modo che quello che tu racconti, soprattutto se è diverso rispetto al gusto corrente, sia in qualche modo non respingente. Per fare questo devi lavorare in un certo modo sul tuo linguaggio ed è difficile... É questo il segreto in fondo; se possedessimo la soluzione avremmo già risolto tutto. Soprattutto quando uno comincia non lo sa ancora. Io, per quanto mi riguarda, ci sono arrivato molto tardi perché volevo conti nuare su una certa strada, questa strada era difficile... l'uso di certi attori, non volere usare le star. Io mi sono rifiutato per sei mesi, il film rischiavo di non farlo, perché io mi rifiutavo di prendere l'attore straniero e il film non si sarebbe fatto se non con una star, ci voleva il cartellone, non c'era il nome sul cartellone... ho tenuto duro: questa volta ce l'ho fatta, magari la prossima volta no: è duro, è durissimo, è difficile, si tratta di un bilanciamento abbastanza raro da ottenere... ci vuole un'alchimia molto particolare.
D. Non ti pare in ogni caso che questa gestione della Mostra voluta Pontecorvo aiuti il cinema italiano giovane?
R. Se aiuterà il cinema italiano giovane sarà benemerito. Mi sembra che Pontecorvo abbia avuto un enorme coraggio perché ha proposto in concorso due film di debuttanti. Questo non succede, per esempio, a Cannes dove è difficilissimo vedere in concorso dei film di debuttanti, magari hanno altre sezioni come «Un certan regard» o «La quenzene». Qui a Venezia abbiamo due film di debuttanti italiani in concorso e abbiamo una vetrina che contenga un po' tutto quello che accade nel cinema italiano adesso. Però contemporaneamente bisogna dire che Pontecorvo non è che abbia privilegiato il cinema italiano rispetto ad altre cinematografie: abbiamo quattro film americani con quattro film francesi. [Gianni Furlanetto]

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