Intervista con

Pupi Avati

regista del film

«Fratelli e sorelle»

Venezia Lido, settembre 1992

D. Nel tuo film metti in scena la famiglia e nel farlo ne parli come di una istituzione disgregata, addirittura dimentica dei propri egoismi, egoismi che non riconosce più. Questa tua visone della famiglia è una visione che coincide appieno con la realtà oppure è una sua esasperazione?
R. Questo non è un film di indignazione, ma un film di preoccupazione. Esprime quindi una preoccupazione nei riguardi di uno scenario che in qualche modo è ancora rimediabile. E' altresì evidente che se la linea di tendenza comportamentale diventa assolutamente questa, se nella storia delle mentalità questa diventa la mentalità vincente è evidente che questo nuovo tipo di famiglia che si va costituendo e affermando in tutto l'occidente, così esile nel numero dei suoi componenti, dei suoi membri... Se confrontiamo «Storie di ragazzi e ragazze» che raccontava la storia di una famiglia nel 1936, a «Fratelli e Sorelle» che racconta la storia di una famiglia nel 1992 - quindi con una differenza di una sessantina d'anni - da ventotto componenti sono ridotti, nella famiglia media italiana, a tre. Questa con due figli è quasi una famiglia che sta al di fuori delle statistiche e che va a compensare le famiglie che sono formate da due elementi. Allora, se un tempo i ventotto elementi in qualche modo partecipavano all'az ienda «famiglia» in modo paritario, con parità di responsabilità, e se qualcuno dei ventotto elementi non aveva la forza sufficiente, o la capacità sufficiente, morale o pratica, per dare un suo contributo c'erano poi nelle frange, nelle pieghe, chi suppliva, chi andava in qualche modo a compensare. Oggi le gambe del tavolo non sono più ventotto ma sono tre. Allora essendo tre, se una delle tre gambe del tavolo viene a mancare è evidente che il tavolo non sta in piedi. Questa è la conclusione alla quale chiunque, in modo molto semplice, arriva. Sarebbe un'analisi troppo scontata e troppo banale se si fermasse a questo punto perché sarebbe un'analisi classica su problemi della famiglia classici, su problemi di figli di «cattivi» genitori classici, o genitori con problemi classici. Quindi figli con problemi, quindi figli in qualche modo «emarginati», «condizionati», i quali ad un certo punto da emarginati si comportano come tali e ricorrono a quel tipo di rivendicazione classica del nostro presente che è la drog a, l'alcool, la trasgressione... cioè si fanno sentire... dicono:«Va beh, sono stato penalizzato avendo un padre non eccelso o una mamma un po' scadente... va beh, mi vendico e allora mi buco... mi ammazzo. Ma sarebbe banale... quante volte queste cose sono state raccontate dalla cronaca, dalla letteratura e dal cinema?... L'originalità di questo progetto non sta qui. L'originalità e il senso di questo progetto è che raccontiamo l'emarginazione silenziosa... il silenzio degli innocenti. La storia di Francesco è la storia di un emarginato, di un ragazzo sfortunato, sfortunato perché si è fidato e perché ha creduto... perché la sua ingenuità, la sua pulizia, lo ha indotto a fidarsi e quindi a non apprendere quei codici comportamentali, quei sistemi, quei modi e quei trucchi morali attraverso i quali ormai ognuno di noi è capace di autoassolversi, di sopravvivere e di salvare se stesso. Senza rendersi conto che oggi questo tipo di vittima che non sta all'interno di nessuna statistica: De Rosa e Censis non le prev edono, non c'è la pagina delle vittime silenziose, dei figli infelici, complessati, che però non si sono fatti notare, che però sono stati zitti, che sono rimasti al margine del campo e non entreranno mai nella partita della vita. Io però li ho incontrati... ci sono, non posso negare che ci siano, perché nelle mie troupe ci sono ogni tanto. Ho già detto come la figura del regista, specialmente in troupe come le nostre dove c'è molto volontariato, c'è molto assistentato volontario e ci sono molti ragazzi che arrivano, molti di questi ragazzi, non tutti fortunatamente, ma alcuni di questi stabiliscono un certo rapporto... prima di tutti lo stabiliscono con me che divento così lo psicanalista, il secondo papà, il parroco... non lo so come... e sento le loro storie. E molte delle loro storie, nel momento in cui si fidano - ci vuole un po' di tempo perché questo accada - sono storie così: sono storie di ragazzi che non ce la fanno, che non sono attrezzati sufficientemente per poter affrontare in modo disinvolto que sto tipo di partita.
D. E' quindi il tentativo di dare voce ad un disagio?
R. E' la volontà, non un tentativo, di dare voce ad un disagio, ad una condizione della quale alcuni di noi sono responsabili. Io stesso sono un cattivo papà ed essendo io un cattivo papà ho dentro di me, dette o pensate, alcune di quelle battute infami e volgari che quell'uomo dice al telefono a suo figlio, di quelle indecenze che appartengono proprio al nuovo lessico autosolutorio attraverso il quale io ho un rapporto magnifico con mia figlia... queste «battutacce» infami «fra me i miei figli c'è un buon rapporto...» che sono le cose più indecenti... «Mia figlia è come un'amica», «Io e mia figlia siamo come...» .... sono le cose più di slogan che dovremmo ormai impedire. Come abbiamo buttato via tutta una serie di luoghi comuni e abbiamo detto che non si può più ricorrere a certe cose, dovremmo anche a questo punto della nostra storia che anche questi tipi di comportamenti in qualche modo vanno stigmatizzati. Credo cioè che la famiglia abbia sempre avuto nella storia dell'essere umano, da sempre, un ruolo fo ndamentale. Lo deve tornare ad avere. E quindi deve tornare ad avere il rispetto e l'attenzione, e chi decide di interpretare il ruolo del papà o della mamma deve sapere che è un ruolo difficile: non si può giocare su queste cose. Si può benissimo non sposarsi, si può benissimo non far figli, si può benissimo essere felici facendo una vita libera e selvaggia senza bisogno di assumere impegni e dai quali poi sfuggire subito.
D. Tu in un'intervista alla Rai hai detto che se non ci fosse stata Venezia non avresti fatto il regista...
R. Io credo che la mostra di Venezia, contrariamente alla mostra di Cannes che ha naturalmente nei confronti della promozione di un film... un successo a Cannes è un successo nel mondo, un successo a Venezia non è un successo nel mondo ed è un successo che ha dei riverberi molto più stretti... Però alla mostra di Venezia va riconosciuta un'attenzione storica nei riguardi di un certo cinema... Un cinema che non vorrei né definire d'impegno, né d'autore, perché sono tutte parolacce, sono tutte diventate volgarità anche queste... ma insomma un certo cinema alternativo, un certo cinema di difficile costruzione. Allora quest'anno quello che ha fatto la mostra, quello che ha fatto Pontecorvo, è assolutamente e straordinariamente meritevole perché ha rispecchiato attraverso la selezione che ha compiuto quella che è la situazione del cinema italiano. Il cinema italiano in questo momento è cioè fatto da quelli che sono qui perché sono questi ragazzi, questi articoli 28 con le loro vicende turbolente e rocambolesche - o gnuno di questi film ha dietro di sé una storia produttiva probabilmente più bella del film che hanno raccontato... di difficoltà, di mettere insieme, di convincere... che io conosco perché è la mia autobiografia... tutta quanta fatta di queste cose qua - ... Ha riportato quella che è la situazione oggi del cinema italiano che dice a se stesso: malgrado tutto il cinema si può fare! questo è quello che dicono questi ragazzi e lo dicono a quelli più grandi di loro, più autorevoli di loro, più blasonati di loro, più forti di loro, i quali invece sostengono invece che il cinema non si può più fare. In questa contraddizione c'è secondo me la scelta giusta di Gillo che ha portato... poi probabilmente fra cinque mesi, sei mesi, tutto questo sarà contraddetto a Cannes perché a Cannes ci sarà tutto il cinema tradizionale. E questo perché grazie a Dio anche Scola, i Taviani, Bertolucci, Olmi... sono tornati a lavorare. Il cinema italiano a Cannes il prossimo anno sarà invece quello classico degli autori classici consoli dati. Quindi a smentire questa aria di rinnovamento che sembra essere qui a Venezia. io poi sono sempre in mezzo perché o non vado bene da nessuna delle due parti o vado bene da tutte e due le parti... del resto è una questione di gusti...
D. La casa di produzione è in America?
R. Noi abbiamo una società con una produzione in un paese agricolo che è l'Oaiwan, un paese del Meadwest americano, dove il cinema non era mai stato. E' il paese più grande produttore di grano del mondo... si fanno tutte le cose ma non si fanno, in genere, i film. E' il più grande produttore di trattori e c'è la famosa fabbrica John Dear (fu l'inventore del trattore meccanico) ed è anche il più grande produttore di armi non convenzionali... tutta la guerra del Golfo è stata organizzata strategicamente da un centro attiguo.... Queste sono le caratteristiche di questo territorio dove noi siamo andati per fare i sopralluoghi di «Bix» e dove poi abbiamo realizzato, prima di «Bix», «Dove comincia la notte» - il primo film di Zaccaro. «Bix», «Un amore americano» che è uno sceneggiato con Brook Shealds e Carlo delle Piane che non ho diretto io (andrà in onda il prossimo inverno) e l'ultimo è «Fratelli e sorelle».
D. Stare tutto questo tempo negli Stati Uniti cosa ti ha suggerito?
R. Stare tre anni in «questi» Stati Uniti che sono gli stati uniti più stati uniti perché il Meadwest è l'area centrale dell'America e senza influenze interne è proprio l'America della conservazione, l'America della tradizione, è l'America delle casette di legno, degli scoiattoli, dove tutto fuori è bello e dove tutto dentro è brutto... voglio dire, anche l'America più problematica... Io ho conosciuto e sperimentato sulla mia pelle entrando la mattina con loro, con i proiettori, con le macchine da presa nelle case quando ancora il papà si stava facendo la barba e la mamma stava preparando la colazione per i bambini - è così che si girano i film quando non si girano in studi hollywoodiani, cosa che non abbiamo mai fatto -.. dentro le famiglie, nelle case, nei bagni, nei corridoi, nelle camere da letto, nei cortili.. ecco, in questi contesti, abbiamo capito! Abbiamo creato un bagaglio di esperienze e di conoscenze su quella che è la situazione della famiglia americana felice e infelice. E allora mi sembrava un b ackground sufficientemente interessante essendoci un gap molto ristretto tra quella che è la situazione americana e quella europea - cioè siamo molto a ridosso, siamo molto avvicinati e quello che succede là nella cultura e nella società dopo poco succede anche qua - e quindi mi sembrava molto interessante andare a rispecchiare, a far riflettere, a inserire, innestare questa vicenda all'interno di un contesto di questo genere. E poi dare questo senso da naufraghi ai protagonisti di questa storia, cioè isolarli completamente, non dare loro radici e possibilità di attingere o di attaccarsi o di comunicare...
D. L'immagine che spesso si ha dell'America è quasi incredibile: mori, assassini.. tutto sembra avere una dimensione più grande. Com'è quest'America...?
R. Questa è l'America metropolitana, l'America delle grandi città. Nelle periferia e nei sobborghi delle grandi città devo dire che veramente il grado di pericolosità e molto più elevato che da noi e ci sono delle zone, ci sono dei ghetti soprattutto, che sono molto delimitati. La stessa Dallangtor, che è una cittadina apparentemente tranquilla, poi ha la parte «nera» che ad un certo punta la sera a mezzanotte viene transennata e lì non ci entri... la sera diventa Harlem... Il dramma della violenza negli Stati Uniti oggi sta nel fatto che soprattutto si esprime nella lotta neri contro neri... sono le bande che combattono le altre bande... eternamente... come le bande cinesi. Ma tutto questo non apparteneva ad una nostra reale esperienza e conoscenza. Per affrontare delle tematiuche di questa natura occorre veramente una permanenza ed una conoscenza dei problemi che francamente non è la nostra. Noi abbiamo raccontato, innanzi tutto attraverso un'ottica italiana attraverso degli italiani - erano soprattutto comu nità italo-americane - questa così diversa dalla comunità italo-americana che il cinema di tradizione ci ha abituato a vedere. Gli italo-americani cioè dei mandolini, della mafia e degli spaghetti.
D. La speranza di Avati dov'è, nei ragazzi, forse, come sembra di dover intuire ddal film?
R. Io credo che se il rapporto verticale della famiglia è messo in crisi, qua c'è improvvisamente una luce sul rapporto orizzontale.[Gianni Furlanetto]

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