Intervista con

Giulio Base

regista del film

«L'est»


Venezia, settembre 1993

D. Il tuo nuovo film "L'est"è completamente differente, nel tipo di soggetto e nello stile da "Crack" del '91. A cosa è dovuto questo cambiamento di rotta? R. Sì, è vero. Però non ci sono delle ragioni vere e proprie alla base della mia scelta. Ancora non so se sei tu che scegli un film oppure se spesso si è scelti dai film. Quando nel '91 ho iniziato a girare "Crack" ero come stato scelto da quel film e stavolta, invece, l'idea è andata in un altro senso. Del resto credo che sia un po' come una malattia del secolo avere diverse personalità. Spero magari che per me questa esplorazione non diventi una nevrosi, però rappresenta poi una dimensione se vuoi stevensoniana della mia personalità. D. La sceneggiatura l'hai scritta tu... R. Più che altro non l'ho scritta, nel senso che l'ho scritta come si faceva una volta con la macchina da presa... D. Passando direttamente dall'idea alla realizzazione? R. Sì, avevo una specie di grande traccia e giorno per giorno scrivevo i dialoghi; mentre ero in albergo oppure in macchina mentre viaggiavamo. Molti dialoghi erano insomma improvvisati. E' una sceneggiatura nata assolutamente in progress, assolutamente durante le riprese. D. Di questo film sei anche il produttore e hai girato tutto in 16 mm. Perché? R. Sì... questo film è partito con un'idea e quindi più che produrlo ho semplicemente detto vado con della pellicola, con degli amici - appunto tre o quattro persone - e vediamo cosa succede. Poi, tornando, montando tutto questo materiale, ci siamo accorti che poteva interessare e... eccoci qua. D. Successivamente è stato riversato in 35 mm... Quanto è costato? R. Sì. Inizialmente questo film mi costa trenta milioni. Poi ovviamente con il gonfiaggio e la riedizione il budget iniziale è aumentato di molto. D. L'"Est" sottolineato dal titolo e fortemente desiderato nel finale del tuo film dalla protagonista, cosa rappresenta per te? R. E' soprattutto un luogo mentale, non un punto geografico. E' un po' quella zona della mente, quella wawe of life, qualcosa di quel tipo, in quel modo, fatto così insomma. D. Forse anche la ricerca di una vita più essenziale? R. Sì, la ricerca di una vita diversa, di un modo di vivere che non sia attaccato alle cose materiali. Poi credo che tutto quello che di concentrato e di particolarmente significativo volessi dire nel film è condensato in quella scena finale, in quel duetto finale con cui faccio raccontare all'autista quali sono invece i suoi "luoghi". E quelli non sono i luoghi della mente ma i luoghi del corpo: se vuoi fare una vacanza - afferma l'autista - fattela a Rimini, in California, a Santo Domingo, alle Maldive... qui non sto bene. Voglio le discoteche, i videogiochi... C'è un po' l'asse che si è girato. Se tu pensi che a desiderare i luoghi del divertimento per eccellenza è un autista, in un certo senso un operaio... E l'utopia di questa zona della mente che è l'Est è sempre stata di una certa classe. Invece adesso è la classe borghese, l'intellettuale, che sogna quella cosa. Si è un po' come catapultato, si è invertito il modo di sognare un luogo della mente di quel tipo. D. Il cinema italiano quest'anno è stato penalizzato alla Mostra di Venezia: la conferenza stampa prima del film, la collocazione delle proiezioni in orari non proprio comodi... Cos'è che sta cambiando a tuo avviso nella Mostra del Cinema di Venezia; c'è davvero meno attenzione verso il cinema di casa nostra; w il cinema italiano è davvero così lontano dal risolvere la propria crisi? R. Onestamente è una domanda a cui non saprei rispondere. Ci vorrebbe più attenzione per il film italiano, però tutto questo fa parte di un nostro difettaccio che non riguarda soltanto il cinema: ci amiamo veramente poco. Senza andare all'eccesso opposto ed amarsi moltissimo e diventare assolutamente sciovinisti come magari sono i francesi, credo che dovremmo cercare una via di mezzo. Invece da noi tutto ciò che ci riguarda è da buttare... Se tu prendi qualsiasi quotidiano di oggi vedi che si parla soltanto di De Niro... Del resto De Niro ogni tanto viene in Italia e tutte le volte che viene succede questa cosa... Io capisco la popolarità, ma un po' più di attenzione al cinema italiano ci vorrebbe. D. Riguardo alla critica come ritieni sia stato accolto il tuo film? R. Bene da alcuni, non bene da altri... Male nessuno, però c'è questa cosa di specificare in maniera non simpatica che il film fosse fatto così, in maniera scherzosa. Cioè al posto di aggiungere, al posto di fare apparire che questo potrebbe essere un dato a favore del film, alcuni lo evidenziano a togliere, come una cosa almeno sconveniente: non è che dice ah, comunque un film fatto con trenta milioni sta alla mostra di Venezia; questo ragazzo, al di là dei meriti del film in sé, ha fatto una cosa, ha girato così, in maniera nuova insomma. D. Qualcuna ha detto che il film un po' ricorda, come commedia, i personaggi di Troisi... R. Mi fa solo piacere... D. E' una somiglianza voluta o casuale? R. No assolutamente, però mi fa piacere perché il primo film di Troisi secondo me era un ottimo film. Al di là di questo fatto ieri ho avuto una enorme sorpresa, positivissima, nel vedere che la gente rideva per cose che non dico non pensassi carine, ma che pensavo facessero solo sorridere.... Non credevo di avere anche una vena di questo tipo e ciò mi ha fatto un enorme piacere. Onestamente vorrei riuscire molto di più a far ridere la gente; ho come l'impressione, alle volte, che il genio vero risieda nel comico. E spesso mi capita di pensarci: mi viene in mente Woody Allen, Charlie Chaplin, Totò, ma lo stesso Fellini... i grandi film sono quelli in cui si ride. E allora delle volte sento di non essere abbastanza in grado di strappare una risata.[Gianni Furlanetto]

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