Intervista con

Carlo Mazzacurati

regista del film

«Un'altra vita»

Venezia Lido, settembre 1992

D. A proposito del tuo film (Un'altra vita) tu hai detto che nasce da un sentimento di disagio e racconta la storia di uomini immersi nella solitudine di un centro urbano. La donna, in questo contesto, che ruolo svolge?
R. La donna intanto è un personaggio anche lei e che vive con un sentimento proprio la sua personale situazione drammatica. Inoltre, in relazione al racconto, è il personaggio che in qualche modo sveglia il sentimento assopito del protagonista. In questo senso è poi motore, per certi versi, del racconto: è il personaggio che da il via a quello squilibrio che crea una sorta di scivolo verso un punto della storia che poi lentamente precipita.
D. Ma il tipo di donna che nel film sveglia il sentimento assopito del protagonista, quale funzione può avere nel mondo di oggi e soprattutto cosa c'è da comprendere nella realtà di oggi?
R. Io credo che questa donna abbia, a differenza dei personaggi maschili che in qualche modo vivono chiusi come dentro una loro palla di vetro costituita dal piccolo privilegio, dal piccolo benessere raggiunto ma che pagano con la solitudine, l'isolamento, lo sradicamento, il malessere, un ruolo antagonista. Infatti questo personaggio femminile che non ha più nulla alle spalle, ha tutta quella energia, quella carica umana per altro comune a tutti quei personaggi che non hanno più niente alle spalle e guardano verso il futuro con infinita speranza alla ricerca appunto di un'esistenza migliore e di una vita possibile, insomma, tutta nuova perché da ricostruirsi. Questa sua energia é secondo me quell'elemento che scatena l'innamoramento da parte di queste due figure maschili (Saverio e Mauro, nel film) i quali di energia, da questo punto di vista, non ne hanno più perchè l'hanno persa in questo essersi seduti nel privilegio, isolamento, chiusure ecc. ecc.. Questo è il contrasto che appare nel film.
D. Per quanto riguarda la situazione dei paesi dell'est, l'origine russa della protagonista mette allo stesso tempo in contraddizione e sullo stesso piano la crisi degli stati dell'est europeo e il loro relativo dramma, con i malesseri del nostro sistema che vive una crisi altrettanto grave. E' così?
R. Sì, anche se magari sono forme di crisi per alcuni aspetti diverse, ma che entrambe racchiudono degli universi di infelicità raggiunta e di crisi profonda. I sistemi sono molto diversi, ma poi alla fine la felicità è un sentimento comune per cui non mi rallegrerei tanto di non essere là perché mi trovo qua e c'è un certo tipo di benessere. Anche qua mi sembra che le cose che stanno avvenendo dimostrino che dobbiamo saperci guardare attorno e dobbiamo reagire, fare delle cose insomma.
D. Riguardo alla tua passata esperienza di animatore culturale del Cinema 1 di Padova, cosa ritieni sia cambiato oggi nell'animazione della sala cinematografica? Allora era forse più facile proporre cinema e organizzare dibattiti sui film? Cosa si può fare oggi?
R. Era certamente in qualche modo più semplice poter organizzare queste cose, soprattutto credo perché una volta la televisione non era così massicciamente presente e diffusa e non proponeva così tanto cinema al punto che oggi risulta quasi il sostitutivo di quella che una volta era la funzione del cinema-dibattito o del cinema d'essai. Oggi un film più vecchio di due o tre anni è quasi impossibile riuscire a vederlo al cinema; negli anni in cui mi occupavo io di queste cose avevamo ancora la fortuna di fare queste cose ed era possibile farla e organizzarla in un cineclub. Però, nonostante tutto, secondo me c'è ancora spazio perché si sa che la gente ha voglia di queste cose. Girando per l'Italia e incontrando appunto delle situazioni di cineclub qua e là, mi è capitato di rendermi conto che le realtà più fortunate sono quelle in cui chi è riuscito ad organizzare è riuscito anche a creare un rapporto di fiducia con il pubblico che torna volentieri perché magari conosce il tipo di programmazione e il livello di qualità. Dove coesistono le due cose - organizzazione e fiducia - vedo che queste realtà funzionano e che la gente torna, per cui credo che ci sia ancora molto spazio per queste iniziative.
D. Tu hai prima parlato di solitudine e ne hai evidenziato quegli aspetti che, al di là delle apparenze, ci avvicina a tante realtà in prima analisi distanti. Non pensi che il cinema, nella misura in cui crea aggregazione, possa essere una risposta a quel senso di isolamento che attanaglia soprattutto i giovani dei nostri tempi?
R. Quello che era una volta anche il modo proprio di fare cinema e cioè di appassionarsi delle stesse cose e di vivere in modo produttivo... Il cinema è di per sé, in tutti i sensi, un evento collettivo, anche a livello del cineclub. Il cinema è un modo per stare insieme, è un'esperienza collettiva e non individuale. Ad esempio, per me un film non è tale fino a che non è passato in una sala in mezzo alla gente. Io veramente non capisco cosa è diventato quel mio film mentre lo sto per ultimare, lo vedo da solo in laboratorio dove sto preparando la stampa delle copie... rimane ancora un corpo asettico. Un film diventa tale nel momento in cui lo vede la gente.
D. E la solitudine cosa è per te?
R. La solitudine è la conseguenza dell'avere accettato le regole del gioco che questo tipo di modo di organizzare la nostra vita ci ha dato: il successo, il vivere in funzione merceologica tutte queste cose che erano di fatto una tendenza egoistica rintracciabile nel tenersi chiusi, lontani, separati gli uni dagli altri. Noi abbiamo un certo benessere adesso, anche se ci sarà una recessione che darà delle bastonate in testa soprattutto a chi ha più difficoltà in questo momento... però il benessere almeno apparente di questi primi anni novanta è la motivazione poi secondo me della solitudine interiore, dello stare da soli.[Gianni Furlanetto]

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