SCHEDE FILM

Lo stato delle cose

Titolo originale

Der Stand der Dinge

Regia

Wim Wenders

Nazionalità

Germania (ex DDR)

Anno

1982

Interpreti

Alexandra Auder (segretaria edizione)

Viva Auder (Kate soggettista)

Francisco Biaiao

Patrick Bauchau (Friedrich regista)

Geoffrey Carey (attore)

Roger Corman

Samuel Fuller (Joe dir. forografia)

Martine Getty

Paul Getty Jr (Dennis sceneggiatore)

Allen Goorwitz (produttore)

Jeoffrey Kime (attore)

Robert Kramer

Camilla Mora

Rebecca Pauly

Arturo Semedo

Chris Sievernich (il produttore)

Isabelle Weihgarter

Wim Wenders

Soggetto

Robert Kramer

Wim Wenders

Sceneggiatura

Wim Wenders

Robert Kramer

Fotografia

Henri Alekan

Musica

Mink De Ville

Jurgen Kneiper

Montaggio

Barbara Von Weitershausen

Durata (in minuti)

127

Produzione

Road Movies, Filmproduktions Berlin, Project Film Produktion, Im Filmverlag der Autoren Munchen

Distribuzione

Gaumont(1983)

La trama

Il film inizia con la lunghissima sequenza di un film nel film. Ci presenta la difficile traversata di alcuni individui (i sopravvissuti) in un mondo contaminato, nel quale si muore per «fusione». Il lungo preludio termina in riva al mare salvatore e si comincia a girare il vero film. Siamo in Portogallo nell'inverno 1981. Il regista Fritz e gli attori occupano un albergo solitario e mezzo diroccato sulle rive dell'Oceano Atlantico. L'albergo è stato danneggiato da una tempesta e forse ha subito un bombardamento. Ora invece fa da sfondo al rifacimento del film di fantascienza di Allan Dwan, degli anni 50 sulla fine del mondo per una catastrofe atomica. Il regista Fritz e gli attori possono lavorare per una quindicina di giorni e poi devono sospendere. Sono senza soldi e senza pellicola. Il produttore Gordon è andato a Los Angeles con la promessa di ritornare in pochi giorni. Non facendosi più vivo, Fritz, prende l'aereo per l'America e, dopo pazienti ricerche, riesce a scoprire Gordon: si nasconde in una roulotte perchè teme di essere assassinato, essendo coinvolto in una losca situazione, che gli ha scatenato contro una banda di gangsters.

La critica...

Falso ritorno a casa

"C'è una cosa divertente che ho letto proprio oggi su un giornale romano, il "Daily America". C'è una storia sul festival di Venezia, sul fatto che il film ha vinto e una foto del film con una didascalia che diceva: "Una foto del film I sopravvissuti che ha vinto a Venezia".

Il bello degli equivoci è che a volte dicono la verità. Specie in un film come Lo stato delle cose, dove le scatole cinesi, i giochi di specchi e i rimandi incrociati si dispiegano in un labirinto talmente evidente da diventare inutilizzabile. Ovvio che il film nel film (The Survivors) alluda esplicitamente al film che lo incornicia (Lo stato delle cose) e che questo a propria volta si intersechi, non solo cronologicamente, con la lavorazione di Hammett; come è ovvio che tra Wenders e Friedrich/Fred/Fritz (Patrick Bauchau) intercorrano i legami ricattatori dell'autobiografia. Ma un alter ego che coincida perfettamente con il suo autore non è che una maschera in più. Ci vuole un'incrinatura perché si possa intravedere il volto. L'errore di un redattore ad esempio (distrazione, fretta o ironia?), che disinnesca la mise en abîme prendendola alla lettera, oppure la constatazione di Kate/Viva Auder :"Fred torna in Europa dopo dieci anni di Hollywood e Gordon lo scarica".

A differenza del suo personaggio, nell'inverno '80-'81 Wenders non è affatto tornato a casa. Vaga da un punto all'altro dell'Europa, coltivando progetti irrealizzabili e aspettando il momento di rientrare in America per rimettere in moto la macchina produttiva di Hammett. Il viaggiatore gira a vuoto. Il narratore del tempo è immerso in un tempo morto, ed è allora che si appiglia ad uno spazio. Perché ne Lo stato delle cose, film apparentemente casuale in cui tutto è preso a prestito da un altro film (The Territory che Raul Ruiz stava girando a Sintra), l'elemento essenziale è proprio il meno premeditato: il luogo. Nove anni più tardi Lisbona sarà l'ultima città europea toccata da Solveig Dommartin nella sua caccia a William Hurt, il punto di partenza verso la "fine del mondo". Qui al contrario è un approdo, ma un approdo che segna un arresto piuttosto che offrire un rifugio. Luogo in cui si finisce più per essere dimenticati che per dimenticare, è il Portogallo a fare della troupe de Lo stato delle cose i veri "sopravvissuti", a consentire l'osmosi fra film e film nel film. Con una striatura di ironia, visto che quello che per i protagonisti del secondo rappresenta la salvezza, per la troupe impegnata a girarlo si rivela in realtà una prigione, dove l'oceano impedisce il contatto con l'al di là (l'America) nel momento stesso in cui sembra garantirlo con la sua promessa di illimitata libertà, con il suo illusorio invito al viaggio. Wenders lo filma sterminato come un deserto, come sarà, qualche anno dopo, il deserto di Paris Texas, ma per il momento è un deserto impraticabile. Tutt'altro che una frontiera, piuttosto un confine che separa due vuoti e che smaschera la falsità del ritorno a casa di Wim/Friedrich. Ritorno in un'utopia, certo, l'utopia del vecchio cinema dei padri con il suo bianco e nero infinitamente sfumato, i suoi "Effetto notte" e le sue presunzioni autorali. Solo che l'utopia è per sua stessa definizione un territorio inesistente, il non-luogo, una casa inabitabile. Nella vertigine da scatole cinesi innescata da Lo stato delle cose la matrioska più piccola è al tempo stesso la più presente, la più interessante: Nel corso del tempo. Speculari fin dal titolo - secondo la regola di quel giochetto che i linguisti chiamano «frasi antonimiche» e che da «t'amo pio bove» deduce un infinitamente più poetico «t'odio empia vacca» - non potendo scambiarsi il protagonista i due film si scambiano la macchina: sprofondato nell'Elba in un goffo tentativo di suicidio che schiude le porte del viaggio, il Maggiolone Volkswagen di Robert Lander/Hans Zischler riemerge a Sintra per arenarsi in riva all'oceano ad ospitare i dialoghi delle bambine della troupe, Alici smaliziate senza più nessuna città. La fine del viaggio arresta il tempo, e l'arresto rende impraticabili le storie, irraccontabile il racconto. Nel corso del tempo interviene ancora, rievocato da Friedrich, per ribadirlo: «Stanno succedendo molte cose simultaneamente. Tutto questo è un film. Sono tante storie. Storie che esistono solo nelle storie, mentre la vita scorre, tanto per citare me stesso, nel corso del tempo, senza bisogno di creare storie o di manifestarsi in storie». Uscito dalla finzione Wenders non rientra nel corso del tempo, nella fluidità autosufficiente della vita colta nel suo farsi; si limita ad aggirarsi da una stanza all'altra, da un abbozzo di situazione all'altro, senza riuscire ad imprimerli nella durata. È il punto più profondo dall'autobiografismo, quello in cui Lo stato delle cose racconta la sua genesi e la sua impasse: «Un altro punto importante, secondo me, è che Lo stato delle cose era in origine un progetto piuttosto diverso. Si è modificato durante le riprese. Il progetto originale riguardava sempre la storia di una produzione cinematografica, ma raccontava degli attori di un film di fantascienza che decidevano, dopo l'interruzione delle riprese, di girare un altro film per conto loro. L'idea era che, con tutto quel tempo libero a loro disposizione, avrebbero scoperto cose più interessanti da fare, e così uno avrebbe cominciato a scrivere qualcosa sugli altri, un secondo avrebbe registrato le voci, un terzo si sarebbe messo a fotografare, un altro ancora avrebbe suonato il suo strumento o cantato, e ognuna di queste singole attività avrebbe dovuto fondersi in qualche modo in un nuovo film. Qualcosa del genere; non si è mai giunti al punto di definire la storia con maggiore precisione.». Alla fine resta la sensazione che ciò che si può rappresentare manchi di realtà, che esista e conti soltanto ciò che resta al di fuori della storia. E che l'unica storia raccontabile sia l'impossibilità di raccontare una storia. Il cercatore ricercato «Quando sono arrivato in Portogallo per Der Stand der Dinge la prima cosa che mi ha detto (Wenders) è stata: "non ho una storia". E io ho risposto: "È questa la tua storia. Anche l'assenza di storia ha un inizio, un centro e una fine"». Sembra Pascal, invece è Samuel Fuller. Soltanto a lui, in un film tragicamente irresoluto tra la richiesta di aiuto ai padri hollywoodiani e la loro definitiva liquidazione, resta un alone di presenza carismatica, il marchio dell'acrobata in miracoloso equilibrio tra la logica dello spettacolo e l'affermazione di un'irriducibile individualità. Se Fritz è l'alter ego in panne, Joe/Fuller è la proiezione benefica, l'amico americano un po' gangster un po' angelo, infine la chiave per uscire dal labirinto. Cominciato con un remake, una storia che si tenta inutilmente di raccontare un'altra volta, precipitato nella depressione delle storie incompiute, lo stato delle cose si chiude sui toni di una storia infinitamente raccontata, il più classico dei noir, eppure resa autentica dal fatto di crearsi da sé, di essere «trovata». Solo in apparenza la struttura del racconto disegna un cerchio; la sua figura in realtà è una spirale, il cui punto di fuga sta nella rinuncia a raccontare storie per limitarsi semplicemente a braccarle. È proprio quando abbandona il set per volare a Los Angeles, quando esce dal cinema e dalla sua idea di cinema, che Fritz vi rientra come protagonista inconsapevole, al tempo stesso eroe e controeroe. A Los Angeles il gioco di specchi tra Lo stato delle cose e Hammett diventa reversibile: e se il primo continua a riflettere i disagi e il disorientamento scatenati dal secondo, questo, a propria volta, illumina la funzione catartica di quello. Nella versione di Hammett successiva a Lo stato delle cose il detective scrittore non è più né un eroe dell'azione poliziesca -come voleva Coppola- né un filosofo dell'atto creativo -come lo sognava Wenders- ma il riassunto e il superamento di entrambi: un uomo messo in scacco dalla propria storia e che tuttavia le sopravvive per trasformarla in racconto. Prima la subisce, ne è travolto e tradito, poi le trionfa imprimendole una forma. Raccoglie, in sostanza, l'eredità del gesto che Fritz riesce appena ad accennare poco prima di morire, e per lasciare il quale era tuttavia necessario che morisse. Sognati qualcosa di nuovo, Fritz.Joe/Samuel Fuller aveva ragione. Si può benissimo non avere una storia, ma bisogna comunque raccontarlo con un inizio, un centro ed una fine. Perché i conti con i propri punti di arresto si fanno in movimento, scendendo nel cuore delle contraddizioni. Poco importa se il conflitto è insolubile, la sua risoluzione, il suo massimo punto di equilibrio staranno nel mantenimento della conflittualità.

Paradossalmente, il «lento ritorno a casa» di Wim/Friedrich si compie non tornando in Europa per girare un film che è comunque ancora «americano», ma riaffrontando le strade e lo squallore di Los Angeles per mettere in dubbio, discutere, ribadire la propria identità di europeo. E il vero film nel film non è The Survivors, ma quello che Fritz gira nel camper dopo aver trovato Gordon e dove mette in scena il dilemma paralizzante da cui nasce Lo stato delle cose : «Tutte le volte ho raccontato la stessa storia. Le prime volte era facile, bastava passare da un'inquadratura all'altra. Ma adesso, ogni mattina, ho paura; ora che so come si racconta un soggetto. E come viene fuori il soggetto, la vita se ne va». Mentre mantiene la sua tensione, nel camper la dialettica lascia anche intravedere un possibile incontro tra chi è convinto che girare un film senza una storia sia «come costruire una casa senza muri» e chi ancora si ostina a credere che «lo spazio tra i personaggi può sopportare il peso». Perché i sicari, i disastri finanziari di Gordon, il suo essere un cadavere ambulante nel mirino della mafia, in una parola la suspance, sono i muri che tengono in piedi il noir; e nel confronti fra produttore e regista (non più soltanto tra due idee di cinema, ma tra due esistenze allo sbando) si apre lo spazio tra i personaggi. Il road movie è ricominciato; in tondo ma non a vuoto, perché nello stesso autogrill da cui erano partiti Fritz e Gordon scendono per entrare finalmente nella «più grande storia del mondo, seconda soltanto alle storie d'amore», la morte.

Punto massimo di una crisi che perdurerà ancora a lungo, e che è limitante circoscrivere al contrasto tra Europa e America perché in realtà mette in gioco soprattutto lo scarto tra occhio e parola, Lo stato delle cose deve liquidare definitivamente il proprio eroe, perché è soltanto da lì che si può ripartire per riaffermare la propria fede nel cinema.

Nella sequenza finale Fritz, colpito dalle pallottole del killer, riesce ancora a filmare la macchina che si allontana. È l'immagine più vera del film, perché ripresa senza volere, senza vedere, perché filmata senza occhi. Vita liberata dallo sguardo eppure ancora visibile, punto di riconciliazione tra la soggettività che imprigiona in una forma e l'oggettività che si appaga di sé stessa (perché l'automobile e il killer esistono anche se nessuno li guarda, anche se l'osservatore è morto). Così, mentre liquida suo malgrado un passato ancora idealizzato, la trilogia del viaggio, il cinema del fenomeno e dello scorrere del tempo, Lo stato delle cose apre implicitamente al futuro di Paris, Texas: vera resa dei conti con l'America e con la frontiera, dove la parola, filtrata dalle pareti di un peep-show, può benissimo far a meno dell'occhio.

[Beatrice Manetti

da WIM WENDERS il cinema dello sguardo, quaderni della Mediateca Regionale Toscana, Loggià de' Lanzi, giugno 1995, pp192, L. 25.000]

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