SCHEDE FILM

Fino alla fine del mondo

Titolo originale

Bis ans Ende der Welt

Regia

Wim Wenders

Nazionalità

Germania

Anno

1991

Interpreti

Kylie Belling (Lydia)

Lois Chiles (Elsa)

Ryu Chishu (Mr. Mori)

David Culpilil (David)

Ernie Dingo (Burt)

Solveig Dommartin (Claire)

Jean Charles Dumay (Mechanic)

Allen Garfield (Bernie)

William Hurt (Trevor Mc Phee/Farber)

Jimmy Little (Peter)

Paul Livingstone (Karl)

Adele Lutz (Makiko)

Charlie Mc Mahon (Buzzer)

Eddy Mitchell (Raymond)

Jeanne Moreau (Edith Farber)

Sam Neil (Eugene)

Chick Ortega (Chico)

Rhonda Roberts (Ronda)

Justine Saunders (Maisie)

Elena Smirnova (Krasikowa)

Rudiger Fogler (Winter)

Max Von Sydow (Henry Farber)

Bart Willoughby (Ned)

Soggetto

Solveig Dommartin

Wim Wenders

Sceneggiatura

Wim Wenders

Peter Carey

Fotografia

Robby Muller

Musica

Graeme Revell

Montaggio

Peter Przygodda

Durata (in minuti)

158

Produzione

Road Movies, Filmproduktions Berlin, Argos Film Paris, Village Roadshow (Sydney)

Distribuzione

Penta Film

La trama

Una giovane donna incontra sulla strada tra Venezia e Parigi, un misterioso uomo. La ragazza se ne innamora immediatamente. Quando lui scompare. La donna decide di rintracciarlo. Comincia così un lungo viaggio che la porta in giro per il mondo. Al momento del ritrovamento l'uomo le confida che è ricercato dal governo degli Stati Uniti per spionaggio industriale confidandogli anche un segreto: suo padre ha inventato una macchina capace di trasmettere le immagini ai ciechi.

La critica...

La terra vista dalla protosfera cosè? Un'ombra nera definita da un alone luminoso, che il sorgere del sole accende rivelando scoscendimenti , ferite e fratture sulla crosta, acqua. «Il 1999 fu l'anno in cui il satellite nucleare indiano impazzì, nessuno sapeva dove sarebbe potuto cadere. Si librava appena al di sopra dello strato dell'ozono come un micidiale uccello rapace. Il mondo intero era in allarme, ma Claire in quel periodo viveva un suo incubo privato. Sognava tutte le notti un volo silenzioso, su una terra sconosciuta. Al principio la sensazione di volo era piacevole, ma poi diventava una sensazione di caduta e successivamente di panico. E si svegliava di soprassalto. Nell'autunno del 1999 a Claire Tourneur capitava di svegliarsi in strani posti...» La voce fuori campo all'inizio del film denuncia l'avvio di una classica peripezia romanzesca. Ma il regista di Fino alla fine del mondo non era un convinto assertore della necessità di guardare da una distanza oggettiva all'esistenza, sottoponendola all'epochè di uno sguardo fenomenologico? Non desiderava inciderla nel vivo raccogliendone l'essenza per frammenti certo di preferire che «le storie o le azioni si addizionino e formino alla fine una storia», piuttosto che «seguire una storia in cui i personaggi sono vincolati dal dramma»? E Fritz Munro, il regista de Lo stato delle cose non aveva definito le storie «Todesboten», portatrici di morte? Qui al dramma planetario che incombe fa eco un acuto disagio privato. Viene annunciata la catastrofe. E la storia attende il suo compimento.

Ne Il cielo sopra Berlino gli angeli guardava la città dall'alto delle sue torri rielkiane, poi sentivano il bisogno di cadervi dentro. Il volo silenzioso che sogno Claire non disegna un'immagine dissimile da quella. È a suo modo anche lei ancora un angelo. «Tu non eri l'angelo di Lisbona?» le chiede, letteralmente accecato Sam/Trevor. Ma Claire percorrerà la sua avventura in orizzontale, per poi spiccare l'estremo volo in orbita. «Passò il suo trentesimo compleanno nello spazio». Così termina il racconto. Claire sorride, vinta la paura di precipitare.

E se Fino alla fine del mondo non fosse altro che un dialogo a distanza intessuto con il poeta Peter Handke, quell'ingombrante ispiratore di parte essenziale dell'opera di Wenders? Se la sua assenza avesse generato lo smarrimento necessario a rinvigorire le aspirazioni narrative di un autore da sempre scettico nei confronti della capacità comunicativa della parola e del racconto? Il film, non dimentichiamo, è sì la storia di Claire, ma quella narrata da Eugene nel romanzo Una danza intorno al pianeta di cui conosciamo senz'altro l'incipit: «Il 1999 fu l'anno in cui il satellite nucleare indiano»...

La parola, dunque, viene indicata come l'estrema risorsa della narratività. È il perno di tutte le storie possibili, né il cinema può rinunciarvi, tant'è che di sole immagini si può anche soccombere, perduti nel labirinto dell'anima, come accade a Sam/Trevor rapito dallo schermo dei sogni. Le immagini intossicano (esperienza di Claire), accecano (esperienza di Sam/Trevor), deformano il ricordo (esperienza di Edith a cui comunicano una tristezza ingiustificata, una melanconia mortale). «Io non conoscevo la cura per la disintossicazione da immagini -chiosa nel finale la voce di Eugene-, sapevo solamente scrivere, credevo nella magia e nella taumaturgia della parola e del racconto». E Claire, con la lettura, guarisce dal suo dolente onirismo solipsistico.

Attenzione alla parola. Potrà salvare, ma non riesce più a mettere in comunicazione gli essere umani fra loro.

I dialoghi, nel film, sono continuamente interrotti dall'interferenza della colonna sonora che li risolve in musica. Il rock, mito wendersiano, qui incaricato di riempire un bruciante vuoto emotivo, perché i personaggi non si trovano più, nonostante si inseguano freneticamente, le parole e le immagini semmai li allontanano, commenta ogni gesto e determina il sentimento di ogni situazione. E il rock contemporaneo, nelle punte più avanzate della ricerca, si presenta all'appuntamento svuotato dei suoi moduli tradizionali; storicamente è sopravvissuto grazie al contributo della world music e alla manipolazione digitale del suono. Il leit motiv di Fino alla fine del mondo miscela canti dei pigmei, voci aborigene e note di violoncello, ma le frontiere dell'acustica vengono puntualmente valicate, per effetto del missaggio elettronico, e lasciano il posto ai ruvidi suoni elettrici di Lou Reed, REM, Talking Heads, Patti Smith, Depeche Mode. Il principio della contaminazione tra generi e stili informa il testo filmico e la colonna musicale. Ogni espressione artistica, oggi, aspira a tradursi in una vorticosa danza intorno al pianeta. Incerta tra passato e futuro.

Viaggiano da sempre i personaggi di Wenders, il movimento è il tratto caratteristico delle traiettorie che disegnano di film in film. Il loro autore ci ha già insegnato che può essere falso. Per non restare intrappolata nella sua vita Claire, come tanti altri suoi «fratelli», danza inconsistente tra Venezia, Lione, Parigi, Lisbona, Mosca, Tokyo e San Francisco. Mai sola; di città in città si moltiplica il suo seguito e si amplifica il moto circolare apparente che ha innescato: insegue l'uomo che il destino ha posto sul suo cammino ed è inseguita dal marito/narratore che si porta appresso a sua volta una scia d'inseguitori. La tecnologia li aiuta solo fisicamente a trovarsi. O forse basterebbe che si guardassero meglio intorno. Perché le metropoli che attraversano non sono che uno spazio inerme, indifferente al traffico: non esistono frontiere fra Venezia, Lione, Parigi, Lisbona, Mosca, Tokyo e San Francisco. Il giro del mondo di città in città si rivela uno spostamento effimero: perché esiste una sola, gigantesca metropoli virtuale ovunque ci siano civiltà, immagini e comunicazione. Lo spazio, misuratamente dilatato, riesce spaventosamente asfittico ed insignificante. E il tempo, intanto, si è azzerato.

Fino alla fine del mondo si divide, come una mela al primo taglio, in due porzioni. Da una parte le città (la città/civiltà) della danza illusoria; dall'altra l'Australia, Finis Terrae a cui il cinema wendersiano anela per vizio congenito. L'approdo nel continente australe, dopo la lunga corsa, reimmette i velocisti planetari nella sfera del movimento lineare e diacronico. Là i protagonisti del film cessano di vivere immersi nel presente e recuperano il loro passato: la ruota del tempo-durata inizia, lentamente, a girare. Sam/Trevor acquista un'infanzia, ritrova i due genitori e si assoggetta al sentimento opprimente dei vincoli familiari (anche se aveva già avvertito: «Voglio solo che mia madre veda e che mio padre sappia che lo amo»); Claire diventa una spettatrice partecipe dell'impresa scientifica e finalmente trova in Edith l'affinità elettiva; Eugene, scrupolosamente annota che l'isolamento seguito all'esplosione del satellite nucleare e l'assenza di notizie dal mondo non ha effetto sulla loro comunità: le passioni della famiglia Farber pulsano più forti e li liberano dall'angoscia per le sorti del pianeta. La scoperta del remoto Finis Terrae (letteralmente «limite della terra»dunque «fine del mondo») dal respiro al moto centrifugo del film: la macchina da presa sorvola il continente, lo spazio fisico macht frei, rende libera la regia di tessere le sue virtuose acrobazie aeree (come in Paris, Texas come ne Il cielo sopra Berlino). Al movimento orizzontale fa da contrappunto quello verticale orientato verso il basso: la cattedrale nel deserto è una caverna che ospita i graffiti preistorici aborigeni e il laboratorio elettronico di Farber (nell'onomastica wendersiana il cognome si potrebbe leggere come una crasi tra Faber l'artefice e Farb, il colore). Il mito germanico della discesa alle Madri non si poteva simbolicamente evitare: depositaria della memoria affettiva, Edith, riacquistando la vista, perde la vita; le immagini, per lei, non sono altro che una dolorosa distrazione inflitta allo scorrere fluido della vita interiore. Mentre sta morendo, in una delle scene più autentiche del film, riannoda il filo conduttore del racconto quando si congeda dal marito: «Questa è la nostra storia amore mio, che bella avventura è stata, lo capisci, che bella danza. Ascolta, lo senti come cantano».

Una storia, una danza, la musica. E le immagini? Il prodigioso montaggio delle sequenze elettroniche high-tech, girate in alta definizione da un Wenders contratto nello sforzo di mostrare cosa e come si sogna, non riscattano l'azione demiurgica di Farber dall'estrema condanna: annegare nelle proprie fantasie, per mezzo delle immagini, rende schiavi e soli. E anche se «non si torna più indietro», la via di uscita dal labirinto del caos semantico universale viene indicato nella fuga consapevole. Edith e Claire saranno dunque due angeli dai tratti equivalenti: esonerate dalla stanchezza, accomunate dalla fede nell'istinto, opteranno, ciascuna, per l'estremo rifiuto. Edith si abbandona al richiamo della morte, Claire abbandona la terra ma continua a gravitarle attorno, danzando il suo generoso volo orbitale per proteggere gli oceani dalla contaminazione atomica. Chissà che, nel suo immaginario colloquio con Handke, Wenders non abbia inteso restituire le creature angeliche al loro spazio ideale: così lontano dalla materia, così vicino ai bisogni umani.

[Cristina Jandelli

da WIM WENDERS il cinema dello sguardo, quaderni della Mediateca Regionale Toscana, Loggià de' Lanzi, giugno 1995, pp192, L. 25.000]

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