SCHEDE FILM

Umberto D

Titolo originale

Umberto D

Regia

Vittorio De Sica

Nazionalità

Italia

Anno

1952

Interpreti

Carlo Battisti (Umberto D. Ferrari)

Maria Pia Casilio (la servetta)

Lina Gennari (padrona pensione)

Soggetto

Cesare Zavattini

Sceneggiatura

Cesare Zavattini

Fotografia

Aldo Graziati

Musica

Alessandro Cicognini

Durata (in minuti)

90

Produzione

Rizzoli, De Sica, Amato

Distribuzione

Dear

La trama

Umberto Domenico Ferrari, vecchio e solo, gode di una misera pensione statale, insufficiente per mantenere lui e il cagnetto Flik, e ha qualche arretrato da pagare alla padrona di casa, che vorrebbe cacciarlo via. Il vecchio, che partecipa a dimostrazioni pacifiche di pensionati, sfoga le sue amarezze con Maria, la governante di casa, da poco arrivata dalla campagna. Maria è incinta e un giorno lo confida la suo vecchio amico che ne soffre; lei non sa neanche di quale dei due militari della caserma vicina sia il bambino. Colpito dall'influenza, Umberto D. va a passare un po' di tempo in ospedale, per vivere gratis e tirare un po' il fiato, ma la suo ritorno a casa la padrona, che si sposa, gli fa trovare la camera sottosopra, per convincerlo che deve andarsene. Umberto D. pensa di chiedere l'elemosina per pagare gli arretrati, ma non ne ha il coraggio. Allora matura l'idea del suicidio. Prima però vuole sistemare il cane in una pensione, ma siccome non può pagare la retta glielo rifiutano; vorrebbe poi regalarlo a una bimba ricca conosciuta ai giardini, ma l'istitutrice non vuole perché i cani sporcano. Lì vicino c'è un passaggio a livello. Tenendo Flik stretto fra le braccia Umberto D. si avvia verso la morte, ma il cane si divincola da quella stretta e il treno passa senza che nulla succeda. Umberto D. prende una pigna e la lancia al cane. Quando Flik partecipa al gioco e gliela riporta, Umberto D. è felice. La critica... De Sica perviene con "Umberto D.", dopo "Sciuscià", "Ladri di biciclette" e "Miracolo a Milano", a un "risentimento morale acre e pessimisticamente chiuso a qualsiasi consolazione storica o esistenziale", dove, come in simbolico limbo grigio e immoto, sembra dissolversi la grande speranza che aveva contrassegnato le prime stagioni post-belliche e, con essa, l'unità etica dei neorealisti, il cui processo di vanificazione era favorito dall'involuzione politica della società italiana e dalla restaurazione moderata del centrismo. È così che la quarta giornata della tetralogia desichiana/zavattiana segna uno dei vertici del fenomeno neorealista simboleggiandone, allo stesso tempo, l'estremo epicedio, rivelando una "fermezza pessimistica che è però già il segno di una sconfitta storica, il sintomo cioè dell'incapacità della borghesia di modificare sé stessa quando debba scegliere tra il proprio umanesimo e i propri interessi". Le successive elaborazioni cui Zavattini sottopose la storia mostrano la volontà non di narrare una storia che somigli alla realtà, ma di narrare la realtà come fosse una storia, la tensione di arrivare al fatto analitico, semplice e banale. È questa tensione che in "Umberto D." raggiunge la sua massima intensità, generando una materia narrativa incentrata sul personaggio, dove l'intreccio scompare, si rarefà a contatto col banale e la quotidianeità. In un universo chiuso e circoscritto si cala dunque la spoglia rappresentazione di una vicenda di profonda mestizia e di umana miseria e sofferenza. Se in "Ladri di biciclette", pur su un simile drammatico e grigio sfondo di desolazione, baluginava tenue, al termine del film, il tiepido raggio della solidarietà e dell'unità familiare, in "UmbertoD." tutto appare spento, nello svolgimento di una vicenda dove la disperazione del protagonista si chiude inesorabilmente su sé stessa, e dove neppure vi è il calore dell'unità familiare e degli affetti parentali ad aprire qualche spiraglio. Specularmente anche per Maria, la domestica, il filo del legame familiare non può trovare possibilità di svolgimento: irrealizzabile si rivela l'unione con il presunto padre del figlio che porta in grembo, ineluttabile il proponimento di un ritorno in famiglia, nel suo paese natale, nella casa della propria infanzia. La città si profila come luogo principale e privilegiato del cinema desichiano, e in particolar modo della sua tetralogia neorealista, giocando un ruolo preponderante nell'ambito di quella dimensione assunta dal regista come precisa e peculiare categoria espressiva. È nello scenario urbano che si compiono i difficili tragitti e si svolgono le drammatiche vicende degli sciuscià, dei ladri di biciclette, dei barboni miracolati, dei vecchi che puzzano, costretti alla sopravvivenza con le diciottomila lire al mese di pensione. D'altronde la città, o meglio la polarità città-campagna, appare parte integrante dell'intera esperienza neorealistica, la cui caratteristica è pur stata da Lizzani individuata nel "rispecchiamento di un mondo ancora legato all'ideologia della terra": in tale struttura "in cui l'elemento fondamentale rimane la campagna" la città assume valenza di "sradicamento o congegno distruttivo, agglomerato confuso di esseri umani allontanati dalla natura". Emblematico sotto questo aspetto risulta allora "Umberto D.", dove la città, entità umana e geografica sulla quale la barbarie bellica ha prodotto gli sconquassamenti più atroci, fisici quanto psichici, si palesa quale spazio geometrico di solitudine, indifferenza e ostilità, annientatore dei valori più autentici, foriero d'ingiustizia e sopraffazione.

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