SCHEDE FILM

La strada

Titolo originale

La strada

Regia

Federico Fellini

Nazionalità

Italia

Anno

1954

Interpreti

Richard Basehart (Il matto)

Gustavo Giorgi

Yami Kamadeva

Giulietta Masina(Gelsomina)

Mario Passante

Anna Primula

Anthony Quinn (Zampanò)

Marcella Rovena (La vedova)

Aldo Silvani (Colombaio)

Livia Venturini (La suora)

Sceneggiatura

Federico Fellini

Ennio Flajano

Tullio Pinelli

Fotografia

Otello Martelli

Musica

Nino Rota

Montaggio

Leo Catozzo

Durata (in minuti)

94

Produzione

Carlo Ponti e Dino de Laurentiis per la Ponti Delaurentiis Cinematografica

Distribuzione

Paramount

La trama

Lo zingaro Zampanò si esibisce in spettacoli per piazze e fiere di paese come mangiatore di fuoco e uomo forzuto che rompe le catene mettendo in mostra la sua forza di uomo primitivo e violento. Da una povera contadina carica di figli, dalla quale aveva già 'acquistato' un'altra figlia poi deceduta, compra per diecimila lire Gelsomina, ingenua e ignorante, per usarla come 'spalla' nei suoi spettacoli. Diventerà a forza la sua amante ma, creatura sensibile, Gelsomina tenta più volte di fuggire da Zampanò, che ormai la considera come un oggetto e la maltratta in ogni occasione. Finiscono in un circo, e Gelsomina si invaghisce del Matto, strana figura di girovago anch'egli, mite e gentile, tutto l'opposto di Zampanò. Che, in un litigio con il rivale, lo uccide, forse involontariamente, e poi lo getta in un fosso. La tragedia fa uscire di senno Gelsomina, turbata giorno e notte dal ricordo del Matto. Zampanò allora l'abbandona, continuando la sua vita di vagabondo e temendo di essere scoperto e arrestato. Alcuni anni dopo scopre per caso che Gelsomina è morta, e improvvisamente prende coscienza della sua solitudine; solo e abbandonato, piange e geme su una spiaggia deserta.

Parola di... Federico Fellini

[... ...]Il cinema racconta i suoi mondi, le sue storie, i suoi personaggi, con immagini. La sua espressione è figurativa, come quella dei sogni. Non ti affascina, non ti spaventa, non ti esalta, non ti angoscia, non ti nutre, il sogno, con le immagini? Nel cinema le parole e il dialogo, mi sembra, servono piuttosto a informarti, a permetterti di seguire razionalmente la vicenda e a darle un senso di verosimiglianza, secondo un criterio di realtà abituale; ma è proprio questa operazione che, riverberando sulle immagini riferimenti della cosiddetta realtà comune, toglie loro almeno in parte quel senso di irreale che è proprio dell'immagine sognata, del linguaggio visivo del sogno. Il film muto, infatti, ha una sua misteriosa bellezza, una potente seduzione evocativa che lo rende più vero del film parlato proprio perché è più vicino alle immagini del sogno, che sono sempre più vive e reali di tutto ciò che vediamo e tocchiamo. Non bisognerebbe mai parlarne dei film! Prima di tutto perché nella sua vera natura un film è indescrivibile a parole: sarebbe come pretendere di raccontare un quadro o riferire verbalmente di uno spartito musicale. Poi, perché, parlandone, si scivola in una serie di ipotesi imprigionanti, vischiose, che lo fissano in immagini, strutture, caratteristiche inevitabilmente riduttive. Così che corri il rischio di non riconoscerlo più tuo il film, e, al limite, di dimenticarlo. Tempo fa ho letto un saggio illuminante di Neumann sulla creatività, o meglio, sul 'tipo creativo'. Mi permette confusamente e rozzamente di citarlo ? Dunque, all'incirca diceva così: chi è, che cosa è un creativo ? Il creativo è colui che si colloca fra i canoni consolatori, confortanti, della cultura cosciente, e l'inconscio, il magma originario, il buio, la notte, il fondo del mare. Sono questa vocazione, questa medianità, a fare il creativo. Egli abita, si pone, vive in questa fascia per operare una trasformazione, simbolo di vita; e la posta in gioco è la sua stessa vita o la sua salute mentale. Chiedo scusa per l'improprietà dei termini a cui mi obbliga una incerta memoria e ammetto anche di avere la tendenza ad esagerare; mi piacciono gli eccessi, lo confesso, non ho mezze misure e perciò non ho difficoltà a riconoscere che la faccenda così come l'ho riferita io è forse un po' troppo drammatica, percorsa com'è da corruschi brividi romantici, da un sulfureo sospetto di demonologia vagamente ottocentesca, sentimenti certamente estranei alla limpida profondità analitica dello scienziato tedesco. Però mi fa piacere, mi lusinga pensare che anche il mestiere di regista possa svolgersi a ridosso di frontiere tanto oscure e turbolente, essere subordinato ad alternative così radicali e pericolose. Vorrei mi fosse consentito di aggiungere al pensiero di Neumann una mia modestissima opinione: io credo che il tipo creativo, in genere, non possa avere coscienza dell'operazione di sutura che compie tra l'inconscio e il conscio; al massimo può essere consapevole del modo in cui tenta la conciliazione. Per quanto mi riguarda, ad esempio, raramente mi capita di essere assistito da una sufficiente lucidità circa i meccanismi che attuano questo delicatissimo, ambiguo passaggio; io non sono aiutato da alcun distacco critico, come accade invece ad alcuni miei colleghi che riescono a realizzare il film decodificandolo subito dopo, a volte nello stesso tempo in cui lo girano. Li invidio ! A me questa operazione non riesce: probabilmente perché col cinema ho un rapporto di clandestinità psicologica, un rapporto fatto di reciproca diffidenza e disistima. Faccio un film come in fuga, come fosse una malattia da scontare. Insofferente e pieno di rancore guardo al film, come a un malanno di cui liberarmi; e mi illudo che la salute sia il momento nel quale mi allontanerò dal film; salvo poi a sentirmi nuovamente e diversamente malato quando dal film io sono fuggito, quando l'ho consegnato ad altri, quando cerco di riammalarmi con un film nuovo e diverso che mi dia necessità di liberarmi nuovamente, di guarire nuovamente, e di una nuova e più ambigua complicità con me stesso. Come il sogno. Il sogno è anche espressione della nostra malattia, anche se, come la malattia, è ricerca di salute. Un film per me è veramente qualcosa di assai vicino a un sogno amico ma non voluto, ambiguo ma ansioso di rivelarsi, vergognoso quando viene spiegato, affascinante finché rimane misterioso. All'inizio un film cos'è ? Un sospetto, un'ipotesi di racconto, ombre di idee, sentimenti sfumati. Eppure in quel primo impalpabile contatto il film sembra già essere tutto se stesso, completo, vitale, purissimo. La tentazione di lasciarlo così, in questa dimensione immacolata, è grandissima: tutto sarebbe più semplice, chissà, forse più giusto. Invece no, l'ambizione, la necessità, la noia, la vocazione, gli accordi e le clausole contrattuali, ti obbligano a farlo. Ed ecco il rituale, il balletto, le situazioni di sempre, nella Roma del cinema: preventivi, avvocati, noleggio, sopralluoghi, brindisi, sospensioni, telefonate intercontinentali alle quattro del mattino. Tutto si replica con una sconfortante puntualità. E puntualmente arrivano gli americani, scendono al Grand Hotel, si va a parlare con loro. Circolano per la stanza in mutande, coi loro sigaroni, flaccidi, stonati, interessati, forse si forse no, non si capisce, cordiali, e sospettosi, mentre discorrono con te telefonano a Tokyo, a Stoccolma, ti propongono all'improvviso di girare il tuo fllm a Bora Bora, continuano a bere, a brindare, a dire che domani vanno dal papa, poi da Carli e poi al ristorante Cesarina, anzi, perché non telefono per avvertirla? Il film sempre più rivela il suo carattere losco, di mezzano: ma accattivante. Ti fa intascare dei soldi, e questo in qualche modo consola. Dietro la firma del contratto c'è un assegno: va benissimo. Ma ecco la terza fase: la sceneggiatura. E il momento in cui il film si avvicina e si allontana. La sceneggiatura fa da detective a quel che lui sarà o potrà essere. Si tenta di scoprire in che modo può essere concretizzato. Appaiono confuse, contraddittorie, beffardamente nitide le prime immagini, stimolate da niente; sono pretesti e occasioni non rintracciabili. Poi quelle immagini volano via: la sceneggiatura bisogna scriverla, ha comunque un ritmo letterario, e il ritmo letterario è diverso, inconfrontabile con quello cinematografico. Prima di fare il regista, ho lavorato a moltissime sceneggiature. Era un lavoro che spesso mi immalinconiva, mi faceva arrabbiare. Le parole, l'espressione letteraria, il dialogo, sono seducenti ma appannano quello spazio preciso, quella necessità visiva che è un film. Temo la sceneggiatura. Odiosamente indispensabile. Per lavorare ho bisogno di stabilire con i miei collaboratori una complicità da compagni di scuola, gli stessi ricordi, gli stessi gusti, gli stessi scherzi, un'aria di contestazione, di derisione del lavoro che si sta per fare. Contro il film. Con gli sceneggiatori che hanno lavorato con me ho sempre avuto la fortuna di realizzare questo sodalizio da liceali: da Pinelli, a Flaiano, a Zapponi, a Rondi, a Tonino Guerra. Quando ho idea di quello che potrebbe essere il nuovo film, ne parlo con loro, come se si trattasse di raccontare qualcosa che ho in parte intravista, in parte sognata, in parte è veramente accaduta a qualcuno che conosco e che potrei essere anch'io. A partire da quel momento cerchiamo di organizzare i nostri incontri. Cerchiamo cioè di vederci il meno possibile, e quando ci vediamo facciamo in modo che non ci sia una vera atmosfera di lavoro. Si parla di tutto fuorché dei film. O tuttalpiù si accenna alla cosa come per esorcizzarla, per tenerla buona, che non ci faccia penare troppo. Un po' come i compiti di scuola. Quando la storia comincia a delinearsi con maggior precisione, allora non ci si vede più e ci si divide il lavoro, ciascuno promette di scrivere qualche scena e non c'è bisogno di raccomandare la più ampia libertà in questa fase dell'operazione letteraria, perché diviso in questo modo il racconto presenta a ciascuno dei collaboratori tutte le soluzioni e le seduzioni possibili. Ho bisogno di una sceneggiatura elastica, sfumata e nello stesso tempo molto esatta là dove le idee si sono definitivamente chiarite. In questa terza fase, il film viene come tirato per i capelli, e recalcitra. Bisogna in qualche modo blandirlo. Certe volte dilato in piena malafede la parte letteraria, altre volte lascio in bianco pagine e pagine. Le parole fanno nascere altre immagini, deviano il fine che l'immaginazione cinematografica persegue. Bisogna smettere, bisogna fermarsi in tempo. Avverto in quel momento l'insufficienza della sceneggiatura, l'inutilità di procedere oltre sul piano letterario. E allora che apro un ufficio, comincio a convocare gente, mi faccio sfilare davanti centinaia di facce. È una specie di rito propiziatorio per creare l'atmosfera. Per me é la fase più gioiosa: quella dove il film si apre a tutte le possibilità, si confronta con ogni incognita. Può diventare qualcosa di completamente diverso da quel che esso stesso si era proposto di essere. Si tratta di trovare le facce di cui dovrà vivere. E nel frattempo rimane in una specie di limbo, mentre il mio ufficio diventa un'anticamera della questura, con i miei assistenti che telefonano a Londra, New York, fanno indagini, cercano sulla traccia più vaga persone, l'archivio fotografico viene continuamente scartabellato, interrogato, si scopre che fra i candidati a un personaggio uno è latitante in America Latina, un altro ha cambiato sesso, un altro ancora, da evanescente dodicenne é diventato una recluta pelosissima e sudata. Vorrei vedere tutte le facce del pianeta: non sono mai contento, e, se sono contento, vorrei confrontare il viso che mi soddisfa con altri ancora, con tutti i visi possibili. È una nevrosi. Potevo aver scritto nella sceneggiatura che un sorriso doveva essere « tagliente»: scartando questo o quello, scopro che quel sorriso, invece che « tagliente » sarà « molle». Il fatto è che, cercando visi, corpi, gesti, tra gli sconosciuti, il film comincia a esistere come mai fin ad ora. Esiste nella sua fase più affascinante: esiste a lampi, a frantumi. E io mi abbandono alla seduzione di quei lampi, di quei frantumi: e delle cento soluzioni diverse e opposte che mi si presentano per un solo personaggio. Senza dire, poi, che in quegli ufficetti dove avviene la cernita - le birre, i liquori, il fumo delle sigarette, quel tanto di sgangherato che c'è sempre dentro -, in quegli ufficetti avviene il rito propiziatorio più autentico intorno a quel qualcosa che era una nebulosa vaga e indistinta, e che adesso comincia ad avere una visibile, irruente fisionomia. Quando sto in ufficio, la porta si apre ed entra un vecchietto, una mignotta, uno che vuol vendere l'orologio, una contessa, un grassone. Ne vedo cento per metterne due nel film: ma assimilo vestiti, dialetti, baffi, tic, atteggiamenti. Magari un tipo è tutto contento perché insisto a farlo fotografare e quello che mi interessa è solo la foto dei suoi occhiali. Non mi sono mai deciso alla scelta di un attore attratto dalla sua bravura, dalla sua capacità professionale: come non mi ha mai trattenuto dal prendere un non attore la sua inesperienza. Io vado in cerca di facce espressive, caratterizzate, che dicano tutto di sé al primo apparire sullo schermo. Tendo anzi a sottolineare con il trucco e il costume tutto ciò che può evidenziare la psicologia della persona. Per scegliere non ho un sistema. La scelta dipende dalla faccia che ho davanti e da quel tanto che posso indovinare dietro alla faccia in persone di solito sconosciute, che vedo per la prima volta. Se commetto un errore di partenza, cioè se attribuisco a una faccia un significato che questa non ha, me ne accorgo di solito ai primi ciak e allora cambio il personaggio. Non costringo l'interprete a entrare in panni non suoi, preferisco fargli esprimere quello che può. Il più delle volte non lo dico per evitare reticenze, pudori, risentimenti; eppure potrei sempre dire agli attori che stanno in un mio film: siate voi stessi e non preoccupatevi. Il risultato è sempre positivo. Ognuno ha la faccia che gli compete, non può averne un'altra: e tutte le facce sono sempre giuste, la vita non sbaglia. Gli attori che riflettono sul personaggio, arrivano con le loro idee, imparano il copione a memoria, mi mettono a disagio. Qualche volta cerco anche di spiegargli il perché: se mi andasse di cambiare le battute? Se mi viene in mente una scena nuova? Se volessi all'improvviso fare un altro film? Addirittura un altro mestiere? Il mio lavoro con gli attori si riduce quasi sempre a una serie di suggerimenti tratti dall'osservazione della vita in comune. Una risorsa per me, in questo campo, è osservare l'attore mentre sta lavorando, o telefona, o parla con qualcuno della dieta macrobiotica, dell'età di un collega, a tavola, quando cominciano le confidenze o i discorsi di politica, quando chiacchiera con i macchinisti dell'etema partita Roma-Lazio. ~ là che vedo come lo voglio. Mi capita spesso di dire, è una frase che ricorre sempre: « Fai come quella volta che... » E quella volta può essere, per esempio, la litigata con un cameriere al ristorante. Io posso suggerire all'attore, che deve dire all'amante o al figlio «Vattene da questa casa! »: « Fai come quella volta che hai detto al cameriere Mi hai portato il riso scotto"». Anzi, a volte arrivo a far dire all'attore « Mi hai portato il riso scotto »anziché « Vattene da questa casa», tanto al doppiaggio si sistema tutto. Alcuni attori sulle prime si offendono, poi lasciano fare. Capiscono che forse non vale la pena di essere zelanti, di fare le prove a casa davanti allo specchio. Ogni volta, naturalmente, è un rapporto diverso, un intreccio di rapporti, un mucchio di fili da tenere in mano: il cinema è affascinante per questo, perché ti addestra a conoscere la gente, a capire, a farti capire, attraverso barriere psicologiche, lingue straniere, complessi, vanità. Voglio aggiungere ancora una cosa: è stato proprio scegliendo i volti tra le comparse che qualche volta è saltato fuori il protagonista del film. Le comparse sono collaboratori preziosissimi dei miei film, alcuni di loro mi seguono da sempre: Chiòdo, Baghino, Nebolini, Cerpelloni, Capitani... Anche stamattina Castrichella s'è affacciato alla porta del mio ufficio per vendermi una maglia. Castrichella è una delle tante comparse che stanno in tutti i miei film, di quelle che ho visto invecchiare, che mi piace ritrovare puntualmente all'inizio di ogni nuova avventura, docili faccette in cui proietto me stesso, che hanno qualcosa di familiare nel rappresentare i miei tic, le mie manie, le civetterie, nelle quali finisco per riconoscermi e che ormai sono il simbolo di qualcosa di mio anche fuori del film. A me basta sapere che ci sono, che esistono. Nel mio mestiere, per il mio temperamento, il rapporto di simpatia e di affezione, di gratitudine e di solidarietà che mi lega alla comparsa, alla sua presenza anonima e mai sottolineata, è un fatto molto importante. È il mio materiale umano elettivo. Docile, modesto, umile, meravigliosamente disponibile per qualsiasi variazione fantastica, ora colore ora silhouette, ora principe ora straccione, ora ministro ora mendicante. Mi occupo anche di loro qualche volta, se posso e se mi va, li aiuto, ma non da benefattore o da filantropo. Piuttosto con l'egoismo innamorato del burattinaio per i suoi burattini. Ma anche la ricerca degli attori, che io vorrei non finisse mai, a un certo punto è sostituita dallo scontro con il gelido tabellone del piano di produzione. Là sopra, tutto é programmato, deciso con uno snervante anticipo, un anticipo che disperde la fantasia. Siamo a febbraio e su quel cartone variopinto leggi che il 7 maggio sarai al Teatro n. 5 a girare Il porto di Rimini. Non c e più scampo: dovrai essere lì. E io, che vorrei portarmi dietro le mie nebbie, le mie insicurezze, la mia voglia di mutare e sognare, scrupolosamente, puntigliosamente non potrò non trovarmi al Teatro n. 5 per quella data. Così, si comincia ad andare da un teatro all'altro, a sorvegliare le costruzioni. Ci sono operai indifferenti che stanno affannandosi attorno a quel che tu hai immaginato. Tutto sta perdendo di allusività... Questo bisogno che ha il film di trasformarsi in qualcosa di esatto e ritmato secondo scadenze, mi fa perdere ogni fiducia in lui. Come lui la perde in me, che quelle scadenze detesto. E io mi trovo a scontrarmi con la produzione per salvaguardare qualcosa che appartiene a me e non più a lui. Il film ormai si è mutato in una operazione finanziaria che la produzione difende con le unghie e coi denti: e lui stesso, il film, si abbandona a questa brutale appropriazione. Ma io che so come è nato, da quali contraddizioni, rabbie, compromessi, approssimazioni, da quali stanchezze e rese è venuto fuori, continuo donchisciottescamente a difenderne l'ambiguità, i contorni sfumati, le tentazioni, le ipotesi che lo governavano, il suo diritto vitale ad essere mantenuto in una dimensione di ideale disponibilità. Io ho una mia algebra: la produzione, e il film con lei, la rifiutano, o la ostacolano. Di qui il rancore, la fuga, la malattia da scontare. Temuto e liberatore, arriva il giorno che devi entrare in teatro. Prima inquadratura. Primo ciak? Quasi sempre le prime due settimane sono orribili, le vivo con un gusto acre di autodistruzione, con un'ebbrezza suicida, convinto che si chiarirà finalmente il lungo equivoco per cui sono stato ritenuto (non sempre) un cineasta non del tutto ignobile. Che liberazione! Ma ecco che un bel mattino il film diventa simpatico, il set ti appare più accogliente, più familiare, e il tuo lavoro e il film hanno qualcosa di più disteso, rasserenante, sembra che siano contenti di stare con te, ti danno fiducia. Da quel momento il film è un amico, è lui che si prende la cura di dirigere te che lo dirigi. La sua algebra torna a coincidere con la tua: anche lui aspira a inventarsi passo per passo. La traduzione di una fantasia (nel senso proprio di « fantasma», cioè qualcosa di precisissimo ma in una dimensione completamente diversa, sottile, impalpabile) in termini plastici, corposi, fisici, è un'operazione delicata. Ora il fascino maggiore di queste fantasie sta proprio nella loro non definizione. Definendole, si perde inevitabilmente la dimensione sognata, lo smalto del mistero. A tutti i costi bisogna contare di conservarlo perché il successo dell'operazione, la sua prova di vitalità, di originalità, di risultato poetico, sta proprio nel riuscire a conservare il più possibile, nell'immagine realizzata, quel tanto di allusivo, trasparente, scontornato, fluttuante, indistinto, che c'era nell'immagine sognata (fantastica). I colori non sono più quelli che hai sognato e così la prospettiva immaginata è ora soltanto quella concreta della scenografia. La faccia di un personaggio è quella che hai di fronte, con quei peli, quei pori, quella voce, non ha più il fascino del volto che ti è apparso magicamente nella libertà totale dell'immaginazione. Poi, quando giri, tutt'intorno c e il pullulare di vita della troupe: e ci sei tu con le tue sollecitazioni private di simpatia o antipatia, e la noia, il fastidio, la stanchezza. La vita di una troupe è un lungo viaggio che si fa cento persone insieme: succedono tante cose attorno ad una inquadratura. E l'inquadratura si nutre di tutto quanto, e tutto quanto abbandona. Indubbiamente se tutto ciò rappresenta un depauperamento, è a volte anche un arricchimento: in questa nuova vita nasce qualcosa di definito, di concreto, di permanente, qualcosa che è il film, così' come sarà visto anche dagli altri. Per questa ragione non vorrei mai andare in proiezione a vedere ciò che ho girato. E qualche volta punto i piedi e non ci vado. Per il Satyricon non ci sono quasi mai andato. Alla fine, dopo tre mesi, mi hanno trascinato a forza: dovevano improrogabilmente demolire il labirinto per far posto a un'altra costruzione e da parte dell'operatore e della produzione si desiderava almeno che io controllassi che non ci fossero stati incidenti tecnici sul negativo. 8½ l'ho girato senza vedere mai nulla di quello che facevo, perché era in atto uno sciopero di quattro mesi di tutti gli stabilimenti di sviluppo e stampa. Rizzoli voleva fermare il film, Fracassi, il direttore della produzione, si rifiutava di proseguire là lavorazione. Ho dovuto impormi, gridare, per obbligare tutti a continuare ugualmente. Ed è stata la situazione ideale. Perché a me sembra che quando vai a vedere giorno per giorno il materiale girato, vedi un altro film, vedi cioè il film che stai facendo, che comunque non sarà mai identico a quello che volevi fare. E il film che volevi fare, avendo questo continuo termine di paragone nel film che stai veramente facendo, rischia di mutarsi, si affievolisce, può sparire. Questa cancellazione del film che volevi fare deve avvenire, sì, ma soltanto alla fine delle riprese, quando in proiezione accetterai il film che hai fatto e che è l'unico film possibile. L'altro, quello che volevi fare, avrà avuto così soltanto una sua determinante funzione di stimolo, di suggerimento e ora dinanzi alla realtà fotografata non lo ricordi nemmeno più, si è come scolorito, sta scomparendo. Poi il film finisce. Ma finisce qualche giorno prima che si concludano realmente le riprese. Un certo giorno ti accorgi che non ti importa più nulla di tutto quel baraccone di meraviglie che è il set. Entri in un teatro di posa che era stato tuo, e c'è un'altra troupe, stanno montando un altro set: avverti quelle presenze come un'intrusione, una violazione, sono dei « guastatori ». La conclusione del lavoro appare così, come una dispersione, uno smagliarsi. Ma appresso arriva qualcosa che assomiglia a un ricominciare da capo. È la fase iniziativa della moviola. Il rapporto col film diventa privato, personale: devo star solo con lui e il montatore. Sul set mi piace lavorare in mezzo alla gente, non ho bisogno di pensose concentrazioni, di discipline militaresche, di silenzi col fiato sospeso. Mi piace che la gente venga a trovarmi, e io li a sfogare il mio gusto di far il saltimbanco. In moviola invece non tollero nessuno. La moviola è una sala chirurgica, e l'oggetto, il film, ha bisogno di rispetto, si nutre della sua stessa intimità. Si arriva così alla prima visione personale. « Lui» esce dallo schermo ridotto della moviola - aveva preso connotati dolcemente amichevoli - e invade lo schermo a formato naturale. Le immagini sono le sue, quelle che ha saputo guadagnarsi e quelle con le quali l'ho inseguito. Attorno a quelle immagini c'è il suono della colonna guida: ci sono gli stracci sonori della vita del set, grida, imprecazioni, risate o silenzi faticosamente ottenuti. Ma anche la proiezione muta, senza la colonna sonora, è affascinante, con gli attori che muovono le labbra in un silenzio da acquario. È sempre il tuo film? Lo riconosci ancora? Ha un volto a mezza strada fra il ricattatorio e il fraterno. Un mezzo cordone ombelicale ci trattiene vicini: spetta a me spezzarlo. A quel punto comincio ad andarmene, a evitarlo, a non provare più gusto a guardarlo diritto in viso. Il magma al quale volevo sottrarlo si è decantato, e ormai il mio interesse va scemando rapidamente. Lo finisco, certo che lo finisco: sempre con maggior pignoleria, per distaccarmene sempre di più. Ma non c'è più con esso (è diventato per me irrimediabilmente una cosa mentre forse per un altro è proprio adesso che comincia a vivere) la contrastata amicizia di prima, o la difficile solidarietà. Tutte le fasi successive lo deformano ulteriormente. Ogni volta che lo rivedi è diverso; ora giovanile, festosissimo, ora balbettante per acciacchi, vecchiaia, ora rapido veloce leggero, ora claudicante, lento, paralitico... Ma in tutte queste fasi contraddittorie, faticose o improvvisamente allarmanti, ce n'è una che è la più desiderata, un vero momento di festa: la creazione della colonna musicale, l'incisione, Nino Rota! Con Nino posso restare giornate intere, ad ascoltarlo al pianoforte nel tentativo di precisare un motivo, di chiarire una frase musicale in modo che coincida il più esattamente possibile con il sentimento, l'emozione che desidero esprimere in quella sequenza. Ma, al di fuori del mio lavoro, la musica preferisco non sentirla, mi condiziona, mi allarma, ne vengo posseduto e allora me ne difendo rifiutandola, scappando via come un ladro dalle occasioni. Non so, forse sarà ancora una volta un condizionamento cattolico, il fatto è che la musica mi immalinconisce, mi carica di rimorsi; inutile come tutti i rimorsi è una voce ammonitrice che ti strugge perché parla e ti ricorda una dimensione di armonia, di pace, di compiutezza dalla quale sei stato escluso, esiliato. La musica è crudele, ti gonfia di nostalgia e di rimpianto e quando finisce non sai dove va, sai solo che è irraggiungibile e questo ti rende triste. Ma ecco che io conosco Nino Rota, sono amico suo, mi vuol bene e questo mi consola un poco; la consolazione un po' cialtrona di chi sa di avere in quel regno metafisico fatto dileggi serenamente accettate un parente importante che può fare da mediatore, spendere una parola buona. Adesso il film è proprio finito. Lo abbandono con fastidio. Non ho mai rivisto un mio film in una sala pubblica. Sono assalito da una forma di pudore, mi trovo nella condizione di chi non vuole vedere un suo amico fare cose su cui non era d'accordo. Non so distinguere un film dall'altro. Per me, ho sempre girato lo stesso film. Si tratta di immagini e solo di immagini: che ho girato usando i medesimi materiali, forse sollecitato di volta in volta da punti di vista diversi. Non è la memoria che domina i miei film. Dire che i miei film sono autobiografici è una disinvolta liquidazione, una classificazione sbrigativa. Io mi sono inventato quasi tutto: un'infanzia, una personalità, nostalgie, sogni, ricordi: per il piacere di poterli raccontare. Nel senso dell'aneddoto, di autobiografico, nei miei film non c'è nulla. Quel che so, è che ho voglia di raccontare. Francamente, raccontare mi sembra l'unico gioco che valga la pena di giocare. È un gioco che per me, per la mia fantasia, per la mia natura, ha una sua necessità. Quando lo conduco mi sento libero, mi sento fuori di ogni imbarazzo. E in questo sono fortunato: posso giocare con questo giocattolo che è il cinema. Mi sarebbe piaciuto fare del cinema nel 1920, avere vent'anni allora, all'epoca dei pionieri, quando tutto era ancora da fare, da inventare. Quando ho cominciato io, il cinema era già un fatto archeologico, aveva già una sua storia, delle scuole, era già iniziato da tempo un processo d'intellettualizzazione, un progetto di elaborazione delle sue regole, dei suoi stilemi, delle sue figure semantiche, dei suoi aggregati strutturali. Alle origini il cinema era invece un fenomeno da fiera, uno spettacolo di piazza e io lo sento sempre un po' così: qualcosa tra la scampagnata tra amici, l'intrattenimento circense, un viaggio verso una meta da esplorare. Un film l'ho sempre sentito come un momento della vita, per me non c e divisione tra la vita e il lavoro, il lavoro è una forma, un modo di vivere. Il teatro di posa buio, tutte le luci spente, ha una seduzione su me che riguarda qualcosa di molto oscuro a me stesso. Mettere su una quinta con le mie mani, truccare un attore, vestirlo, stimolare un suo gusto, una sua reazione, sono cose che mi coinvolgono completamente, che assorbono tutte le mie energie. A Cinecittà io non ci abito, ma ci vivo. Le mie esperienze, i miei viaggi, le amicizie, i rapporti incominciano e finiscono nei teatri di posa di Cinecittà. Tutto ciò che esiste fuori dai cancelli di Cinecittà sono degli affluenti, insostituibili certo, un enorme meraviglioso deposito da visitare, da razziare, da trasportare dentro Cinecittà, avidamente, instancabilmente. Non so se tutto questo è un privilegio o un asservimento, ma è il mio modo di essere. Sono convinto che il cinema non consente casualità. Si, c'è un estetica cinematografica che teorizza invece la più aperta casualità. Il fatto è che il cinema si avvantaggia dell'ignoranza di chi va al cinema. Mettendo insieme un bravo operatore, un bravo scenografo, un bravo attore, si arriva senza dubbio a combinare qualcosa. Ma il risultato è proprio quello della sartoria, è quello che la casualità può ottenere. C'è un tipo di autore cinematografico che specula su tutto questo; e, tanto più umile e modesto sarà, più la sartoria, la casualità, e quel concertare, saranno generosi con lui. Io sono persuaso di un metodo di lavoro tutto diverso. Su quella nebulosa vaga e incerta che è un film, così come si è depositato nell'immaginazione, bisogna agire con rigore. Il mestiere di colui che pretende di materializzare ombre, forme, prospettive, luci, è fatto di rigore e di elasticità insieme. Devi essere intransigente, implacabile, ma anche morbido, attento a cogliere resistenze, diversità, errori magari, con uno spirito di vigile responsabilità. L'imprevisto non è mica sempre e soltanto una difficoltà, spesso è un aiuto; e tutto ciò che succede da quando hai un'idea per un certo film e poi durante la preparazione e le riprese o il montaggio, tutto è utile al film. Non ci sono eventi, occasioni, elementi che possono considerarsi totalmente estranei al film. Tutto fa parte del film. E un'altra cosa vorrei dire: non esistono condizioni ideali per la realizzazione di un film, o meglio: le condizioni sono sempre ideali, perché sono quelle che in definitiva ti hanno permesso di fare il film così come lo stai facendo; la malattia di un attore, che obbliga alla sua sostituzione, la scaltra testardaggine di un produttore, un incidente che arresta la lavorazione: non sono degli ostacoli, ma gli elementi stessi di cui il film viene via via componendosi. Ciò che è finisce sempre per prendere il sopravvento, per sostituirsi a ciò che avrebbe potuto o dovuto essere. Gli imprevisti non solo fanno parte del viaggio, ma sono il viaggio stesso. È indispensabile conservare una lucida disponibilità interiore. Fare un film non è tentare ostinatamente di adeguare la realtà a idee precostituite; fare un film significa anche saper riconoscere, accettare e utilizzare le progressive alterazioni che le idee preesistenti subiscono dal continuo, parallelo divenire di quanto accade. Fedeltà assoluta a ciò che vuoi fare, certo, ma anche accettazione di quanto viene via via manifestandosi, perché spesso non è che la secrezione costante di ciò che vuoi fare. In fondo si tratta di accettare il fatto che, se anche hai rinunciato a tante cose e se non c'è più quell'aria di allusività, quella rarefazione appagante dell'immaginazione, ciò che hai fatto va bene comunque per la sola ragione che è fatto. La vita è anche così. È infantile pretendere di attraversarla protetti in ogni momento da certezze immutabili. È anche per questo che finito un film non lo voglio più rivedere.
[da: "Federico Fellini: Fare un film", Einaudi, 1980].

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