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Nostra intervista con Ousmane Sembene

di Francesca Bellacci

Il cinema africano è in attesa di una più attenta e seria considerazione da parte del pubblico occidentale. Tra gli autori più significativi e impegnati della cinematografia "nera" spicca la figura di Ousmane Sembene, autore di Campo Thiaroye e Guelwar.

Di lui pubblichiamo un'intervista da noi realizzata qualche tempo fa.

A proposito dei problemi che spesso denuncia nei suoi film, vorrei sapere da Lei come vengono vissuti dalla popolazione... se si intravede una via d'uscita, soprattutto dalla piaga della corruzione.

Nessuno accetta la corruzione e la miseria. Nessuno l'accetta. Penso che si debba aver fiducia nei popoli africani. Il problema della quotidiana sopravvivenza è molto importante. L'Africa non ha fatto altro che tradurre tutto ciò che appartiene all'Occidente inserendolo nella propria cultura. Ciò dipende dai paesi africani, dai popoli... ma addirittura i governanti africani.... Coloro che governano l'Africa (Senegal, Camerun, Gabon, Congo...) sono delle marionette nelle mani dell'Occidente. Bisogna conoscere tutta la storia dell'Africa ed è necessario comprendere la situazione dei popoli africani.

Vede una via d'uscita per l'Africa dal dominio occidentale?

C'è sempre una via d'uscita. Altrimenti sarebbe la catastrofe. I giovani vogliono cambiare e cambieranno, ma è necessario che anch'essi conoscano tutto il passato per impadronirsi della storia attuale. Fino ad un centinaio di anni fa siamo stati colonizzati. In questi anni, per la prima volta nella storia, noi cerchiamo di dirigere il nostro popolo. Abbiamo dei cattivi governanti: sono malvagi. Tutti. Ma la nostra volontà è quella di cambiare la situazione e adesso stiamo prendendo coscienza - i popoli prendono coscienza - di questa necessità. Molte cose sono cambiate in effetti. Molte e rapidamente. Da noi non ci sono più stabilità e consenso politico e ovunque si registrano sommosse popolari. Questa è una cosa buona. Come sarà, dunque, l'Africa di domani...? Sarà come sono gli africani e come ciò che essi vogliono. Altrimenti non c'è soluzione.

Quale è il suo rapporto di regista con gli attori?

Gli attori dei miei film non sono attori professionisti e per poter lavorare con loro io devo spiegargli tutto ciò che devono fare e come lo devono fare: è come una scuola. Lo stesso è stato per tutti i maestri dell'antichità. Per esempio, lo stesso avveniva per il cinema italiano tra il 1945 e il 1947. Penso che per il cinema africano adesso stia avvenendo un po' la stessa cosa: non ci sono attori professionisti in Africa. E siccome non ci sono bisogna scegliere gli uomini e lavorare con loro, tutti i giorni, per uno o due mesi, prima di cominciare il film. Non è il rapporto tra padrone ed operaio, ma è la cooperazione per portare a termine un lavoro che ci interessa tutti. Non ci sono persone che dicono: io vengo perché mi piace o io vado perché non mi piace... è ciò che gli italiani chiamano lavorare a vuoto. Non so come spiegarmi, per me è naturale.

Sappiamo che andare al cinema in Africa non è molto diffuso e che la gente più spesso vede la Tv. I film trasmessi sono quindi americani, giapponesi... Quale possibilità hanno di essere visti i suoi film; quale distribuzione possono avere nei paesi africani e, più in generale, quali potenzialità ha la filmografia africana?

É questione di politica. Sono i governi che decidono sui film fatti dagli africani. Noi abbiamo molta difficoltà sia a portare i nostri film nelle sale sia in televisione. Ma questa è la nostra lotta e noi siamo coscienti che tutto questo deve essere cambiato. Il cinema italiano è controllato dagli americani... Forse voi lo cambierete? Il cinema mondiale è controllato dagli americani: forse voi lo cambierete o avete cambiato questo stato di cose? Voi avete molti intellettuali, avete un buon governo... E allora? Vedete?

Sì, per noi è più difficile, ma noi pensiamo e siamo sicuri che il cinema africano si farà strada. Noi abbiamo iniziato a fare cinema soltanto 30 anni fa. Adesso abbiamo più coscienza e la gente ha sviluppato la coscienza che è necessario conoscere la propria storia attraverso il cinema.

L'astio e la contrapposizione tra musulmani e cattolici sottolineate dalla storia del film "Guelwar" è così drammatica anche nella realtà?

Il film si riferisce ad una storia vera e non sono io ad averla inventata. Noi abbiamo questi problemi. Ma tra gli africani del Senegal, come di Mali, i musulmani sono la frazione più numerosa e i cattolici rappresentano soltanto una minoranza. Può accadere che talvolta si creino tensioni, anche se questa non è la norma... in ciascuna famiglia c'è un cattolico e noi viviamo in pace. Anche se io spero che non ci siano mai conflitti religiosi, so che potrò assistere a questi piccoli drammi.

Con "Guelwar" Lei accusa gli aiuti alimentari forniti dall'Occidente. Allora, a Suo avviso, quale è la forma in cui l'Occidente può dare un aiuto reale ai popoli in via di sviluppo?

Cosa si può fare?

Niente!

Ritiene inutile anche la cooperazione attraverso organizzazioni non governative?

La cooperazione è un'altra cosa. É il partner in parità. Ma l'aiuto alimentare che si dà continuamente è sbagliato: i giovani non lavorano affatto. Non possiamo nutrire i popoli in questo modo ed è necessario che gli africani lavorino. Anche se poi ci saranno grandi piogge ed altre calamità. Ma noi sappiamo che l'Africa accetta... tutti i giorni giungono e tutti i giorni gli africani domandano. Non si può accettare questa situazione... un paese, un popolo, non possono passare la vita a mendicare. Tuttavia la cooperazione tra i paesi va molto bene. La tecnica è l'Occidente che deve fornircela. Noi dobbiamo comprendere e lavorare. Non abbiamo bisogno di consigli di persone che ci dicono ciò che dobbiamo fare e come dobbiamo farlo. La verità è che per noi è necessario imparare a conoscere i nostri stessi bisogni per poi cercare di risolvere i problemi. Non serve che qualcuno giunto dall'esterno, dall'Europa, dica: bisogna far questo! Basta!

L'incontro della cultura africana con la cultura occidentale ha fatto sì che gli africani rinunciassero a gran parte delle loro tradizioni. Ma un popolo che rinuncia alla propria cultura rischia di perdersi nella storia. Cosa ne pensa?

Sì, il problema è vero. Si pensa che l'Occidente sia migliore. Ma l'Occidente non è affatto migliore e non ha niente da insegnarci eccetto la tecnica. Niente sul piano morale, niente sul piano religioso neppure... Ma qualcuno ha messo nelle teste dei governanti africani che tutto quanto viene dall'Occidente è bene. Non è affatto vero. Noi conosciamo cosa avviene in Italia: nel sud ci sono la miseria e la mafia; il governo non funziona bene e non è certo d'esempio. Per quale ragione allora dovrei io africano chiedere ad un italiano cosa devo fare?

Lei è stato a Venezia nel 1988 con un suo film e precedentemente anche come membro della giuria e poi nel 1993. A Suo avviso in quale misura è cambiato il modo di fare cinema in Italia?

A Venezia c'è sempre stato posto per i film africani. E in effetti non si può parlare del mondo senza l'Africa come l'Africa non può parlare del mondo senza gli altri. Ovunque dove sia presente una competizione, gli africani devono fare di tutto per essere là. Tutto è cambiato e tutti hanno cambiato perché tutto si è evoluto. Venti o trenta anni fa si parlava dell'Africa con dei film etnografici: gli africani che danzano sull'albero. É così e voi siete cresciuti con questa idea dell'Africa. Ora tutto questo sta cambiando. Gli africani vogliono fare la loro parte nel panorama del cinema mondiale di domani. Ma lentamente, così come pure voi, lentamente, cambierete mentalità.

La sala della comunità

Tra passato e futuro

Cinema, teatro, musica leggera. Si può e si deve evangelizzare usando anche i mass-media. E non si deve ripartire da zero, basta organizzarsi. La storia più recente della Chiesa vanta ricchezze immense racchiuse tra le pieghe di una stagione nemmeno troppo lontana: gli anni 60/70 quando lo slogan fu l'impegno del dopoguerra. E sorsero ovunque cinema che nell'offrire un alla gente, davano magari ai parroci anche la possibilità di far quadrare i bilanci. Quando con il boom delle Tv private e delle videocassette è sopraggiunta la crisi del cinema, in pochissimo tempo sono infatti stati centinaia e centinaia gli esercizi scomparsi dall'orizzonte delle nostre città. Nell'impossibilità - o forse nel rifiuto - di sostenere strutture a carattere paraindustriale, un ostacolo spesso insuperabile è stato quello dell'adeguamento alle nuove norme di sicurezza. Rispetto agli anni '60, quando le sale cinematografiche parrocchiali aperte al pubblico erano circa 6.000, oggi solamente 700 di queste si sono rinnovate e continuano a fare prevalentemente cinema; altre (300 circa) utilizzano raramente il cinema; moltissime, invece, sono diventate strutture fatiscenti, quasi mai usate, il più delle volte cedute per altre attività (supermercati, garage ecc.). Ma anche per le realtà sopravvissute alla anni Ottanta l'avvenire non è dei più tranquilli. Molto è cambiato e il cinema - da sempre a livello della produzione, ma ormai anche a livello di distribuzione e di monopolio di esercizi - appartiene ad altri potentati. Eppure il magistero della Chiesa ha sempre affermato con forza la necessità di un rilancio, insieme ai mass-media, delle sale parrocchiali. Nel 1982 una apposita Nota Pastorale della Conferenza episcopale italiana precisava: comunitaria le nostre sale devono proporsi come luoghi di incontro e di dialogo, come spazi di cultura e di impegno, per un'azione sapiente di recupero culturale, di pre-evangelizzazione... e ancora dove la comunità ecclesiale incontra la società civile.

Jacques Tati allo Stensen

Forse anche in seguito al successo avuto dall'intelligente restauro di "Jour de fete", la Bottega del Cinema di Firenze rende omaggio a uno dei più grandi e originali talenti comici del cinema di tutti i tempi. Un appuntamento da non perdere quello con Tati. Il cinema di Jacques Tati è moderno e complesso dal punto di vista formale pur mantenendo i caratteri della artigianalità. Un cinema squisitamente comico e ironico, privo di forzature e di volgarità e che evoca certe atmosfere care al vecchio "realismo poetico" francese. Un cinema di osservazione: "la mia comicità deriva in parte dall'osservazione; la comicità esiste già fuori di noi. Il problema è saperla cogliere. Credo perciò che osservando il mondo che ci sta attorno si possano trovare centinaia di personaggi comici. E poi io voglio, al contrario di altri che non hanno mai cercato la verità, ma solo l'effetto comico puro, che il gag abbia il più possibile di verità". La verità è quella del conflitto tra l'uomo e il mondo: "esiste una frattura tra quello che siamo realmente e quello che vogliono farci essere. Allora l'uomo ha un solo mezzo per reagire: interrompere il contatto tra progresso tecnico e umori spontanei. Il risultato è di una ineffabile comicità. Liberando questa comicità l'uomo finisce col prevalere sulle cose". E lo straordinario personaggio di M. Hulot sembra proprio voler essere il modello antico di individualismo, pacatezza, fantasia da contrapporre al modello moderno di massificazione, velocità, efficienza, meccanizzazione. (Per informazioniIstituto Stensen tel. 055/576551)

[Mario Brucker]

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