SCHEDE FILM

L'amico americano

Titolo originale

Der amerikanische Freund

Regia

Wim Wenders

Nazionalità

Germania Francia

Anno

1977

Interpreti

Gerard Blain (Raoul Minot)

David Blue (Allan Winter)

Lou Castel (Rodolphe)

Satya De La Manitou (Angie)

Andreas Dedecke (Daniel)

Bernard Eisenschitz

Jean Eustache (uomo gentile)

Samuel Fuller (l'americano)

Bruno Ganz (Jonathan Zimmermann)

Adolf Hamsen (il controllore)

Rosemarie Heinikel (Mona)

Dennis Hopper (Tom Repley)

Heinz Joachim Klein (Dott. Gabriel)

Lisa Kreuzer (Marianne Zimmermann)

Stefan Lennert (banditore dell'asta)

Peter Lilienthal (Igraham)

Heinrich Marmann (signore del treno)

Gerty Molzen (vecchia signora)

Nicholas Ray (Derwatt)

Klaus Schichan

Axel Schiessler (Lippo)

Daniel Schmidt (Ingraham)

Rudolf Schundler (commissario asta)

Sandy Whitelaw (medico di Parigi)

Soggetto

Romanzo «Ripley's Game» di Patricia Highsmith

Sceneggiatura

Wim Wenders

Fotografia

Robby Muller

Musica

Jurgen Kneiper

Montaggio

Peter Przygodda

Durata (in minuti)

128

Produzione

Road Movies Du Losange/Wenders

Distribuzione

Vis Star (1978)

La trama

Jonathan Zimmermann, corniciaio e restauratore in Amburgo, sposato e padre di un bambino, ha la leucemia. Contando sul fatto che gli restano pochi mesi di vita e che egli, quindi, sia lieto di lasciare un buon gruzzolo alla moglie e al figlioletto, l'americano Tom Ripley, che si è arricchito smerciando i quadri di un pittore che tutti credono morto, lo indica al gangster francese Raoul Duplat, che cerca un killer per sbarazzarsi di un rivale. Attirato dall'offerta di farlo visitare da un famoso specialista parigino Jonathan - allorché il responso del medico, che Raoul ha falsificato, gli dice che le sue condizioni sono ormai disperate - accetta la proposta del gangster ed esegue il delitto, tenendone all'oscuro la moglie, Marianne. Qualche tempo dopo, e sempre col pretesto di una visita medica, questa volta a Monaco, Duplat gli propone un secondo omicidio, e Zimmermann accetta di nuovo. Quando s'accorge che, con questo delitto, Jonathan rischia la propria vita, Ripley, che gli è diventato amico, interviene e lo tira fuori dai guai, compiendo lui l'omicidio. La vendetta dei complici dell'uomo ucciso che ha già colpito Duplat, costringe Ripley e Zimmermann a nuovi delitti, finché Jonathan si staccherà dall'amico per riavvicinarsi a Marianne, che ora sa tutto. Poiché la sua malattia era davvero incurabile, egli morirà, accanto a sua moglie, sulla desolataspiaggia di Amburgo.

La critica...

Forse non è necessario scomodare a propria tutela l'autonomia del testo per poter formulare un'ipotesi di lettura de L'amico americanoche individui come asse portante del film l'interazione di coppie oppositive quali quella dei personaggi Tom Ropley-Jonathan Zimmermann, quella cinema americano-cinema europeo e, infine, cinema-arti visive preesistenti al cinema.

Una tale ipotesi può essere avvalorata innanzitutto dallo stesso percorso creativo di Wenders. Dopo la trilogia della strada, si delinea infatti la trilogia americana, della quale L'amico americano (1977) è il primo film, seguito da Nick's movie (1980) e da Hammett indagine a Chinatown girato tra il 1980 e il 1982 (ma in questo gruppo di film sarebbe facile introdurre anche il successivo, Lo stato delle cose, del 1982). Il quinquennio è segnato dalla ricorrente ambivalenza del rapporto con il cinema americano individuato come modello narrativo e stilistico da seguire e trasgredire e come sistema produttivo con cui confrontarsi e scontrarsi. Se da una parte è nota infatti la propensione di Wenders nei confronti della cultura e del cinema americani, la sua posizione è tuttavia critica, e lo confermeranno le considerazioni a posteriori. Nel 1988 affermerà: "(...) proprio in America, cioè lontano dall'Europa, ho capito come il mio mestiere fosse europeo. Io sono un cineasta europeo, dicevo in America (...). Solo il cinema europeo può vantare ancora una dignità ed una morale (...)." Si ricordi, a conferma di questa distanza, che effettivamente il rapporto di Wenders con la sfera produttiva hollywoodiana si era fatto molto difficile, soprattutto durante la realizzazione di Hammett. In questo senso lo scontro metaforico fra due mondi e due sensibilità, che andremo ad identificare nel testo filmico, può essere considerato esemplare e persino premonitore della competizione che avverrà realmente tra due modalità produttive e di concezione estetica del film.

Il confronto fra i due protagonisti de L'amico americano, Johnatan e Tom, può interpretarsi allora come metafora del rapporto e del confronto tra cinema statunitense e cinema europeo, oppure, più specificamente tra cinema tout court e di Wenders. Si individuano, peraltro, sin dalla fase di adattamento del romanzo della Highsmith, alcuni cambiamenti dei due personaggi voluti da Wenders che risultano in tal senso estremamente significativi. In Tom Rypley vengono rafforzati gli elementi che possono in qualche modo porlo in relazione al cinema americano: si pensi al suo mestiere di mercante d'arte, ovvero di venditori di immagini, al suo amore per la tecnologia, al suo internazionalismo, alla tendenza alla finzione ed alla spregiudicatezza; e ancora, al cappello da cow-boy come citazione cinematografica, alla trasformazione della sua casa d'Amburgo in una sorta di museo di oggetti americani, al comportamento sempre impostato sul modello del cinema. "Smettila di comportarti come in un dannato film" lo apostrofa Minot, suo equivoco compare. In Jonathan, invece, risultano sottolineati elementi più "europei", come la semplicità, la dignità, la spiritualità, l'amore per l'arte, il disprezzo per la sua mercificazione, che lo rendono rappresentativo del cinema del vecchio mondo.

Del resto il personaggio chiave è comunque Jonathan, killer per caso e per necessità: è attraverso i suoi occhi che vediamo il film. "Da un punto di vista narrativo ho sempre cercato di affidare la mia prospettiva ad un unico personaggio, che ci fa vedere i film direi proprio tramite i suoi occhi. Quando si tratta di due protagonisti, può darsi che in fondo dietro ad entrambi si celi l'ombra di un'unica persona." Dopo che il complice di Minot ha indicato la prima vittima in Jonathan, un movimento di macchina ci segnala che da ora in poi tutto sarà visto attraverso il suo sguardo. È così forte tale scelta che dopo la sequenza che mostra Jonathan spiato dall'alto delle telecamere di controllo, per marcare il ritorno all'identificazione con il suo sguardo l'autore dovrà usare un vistoso movimento di macchina dall'alto in basso, fino all'altezza dei suoi occhi. Ma per Jonathan la tentazione di chiudere gli occhi o di distrarsi è irresistibile: il suo comportamento si configura come rifiuto di guardare ciò che è stabilito che guardi (perde di vista la sua vittima, non si accorge che la pistola è visibile fuori dall'impermeabile) e, al contrario, come volontà di guardare ciò che è proibito guardare (indugia nello squadrare la vittima, più che altro per curiosità, fissa lo sguardo sull'architettura della metropolitana e su un cartellone pubblicitario fino ad inciampare e ferirsi). Sono l'inceppamento dei meccanismi del vedere e l'insofferenza verso i veti e le costrizioni a distinguere Jonathan, abituato ad osservare oggetti artistici e ad utilizzare la vista a fini estetici. Il suo sguardo costituisce l'ultimo residuo di libertà possibile. I suoi occhi, verrebbe da dire, non si possono comparare, o non del tutto. Come non collegare lo sguardo di Jonathan a quello eterodosso del regista Wim Wenders? Come non ricordare che tra i titoli ipotizzati per L'amico americano si trovano Fuori quadro o Contro regola?

Anche nella seconda grande sequenza d'azione, quella del treno, Jonathan non riesce ad obbedire alle elementari regole del guardare: osserva fino a fare insospettire la sua seconda vittima, chiude gli occhi fino ad addormentarsi, indugia su dettagli insignificanti, viene infine scorto dall'uomo che deve ammazzare mentre si sta guardando nello specchio della toilette e provando le sue armi, la garrotta e la pistola. Ripley, invece, il cui intervento risulta risolutivo, si presenta (ed è l'unica volta in tutto il film) con gli occhiali da vista; quando Jonathan, bloccato nel gabinetto insieme al cadavere, non trova un biglietto da esibire al controllore che lo incalza da fuori, Ripley lo apostrofa ironicamente con questa battuta: "Forse l'hai messo al posto degli occhiali!"

È Ripley quindi, personificazione del cinema americano, con la sua efficienza visiva e con il suo andare al sodo, a compiere gli atti decisivi sul treno, a far procedere la storia. Ma Jonathan, con un nuovo paradosso, la spunta su tutti: mentre lui urla nascosto nella motrice del treno, gli altri gangsters divengono vittime dei pericolosi inganni del vedere: scambiano un passeggero per il loro capo, ormai eliminato da due improbabili killer.

E ancora in chiave traslata possono leggersi senz'altro altri due personaggi: per primo il pittore Derwatt, interpretato da Nicholas Ray. Il regista, che a Wenders di lì a poco lascerà rappresentare la propria decadenza fisica fino alla morte, interpreta un pittore, un creatore d'immagini che trae profitto dalla propria morte apparente, complice sfruttato del cinico Tom Ripley. Non certamente a caso, inoltre, Sam Fuller è impegnato nel ruolo del gangster. È certo, infatti, che l'utilizzazione di cineasti nel film corrisponda ad una precisa strategia di senso, e ce lo conferma lo stesso Wenders: "I registi sono i soli upmini a disporre della vita degli altri come i mafiosi. Samuel Fuller ha ucciso un attore e due cascatori (...) facendo fare loro cose troppo pericolose. Non è un criminale, ma secondo me c'è una certa analogia tra un regista e un gangster."

Ma l'opposizione fra Jonathan e Tom può funzionare anche se si considerano come simboli l'uno del cinema come industria evoluta e l'altro del cinema come forma artistica originaria o persino preesistente alla propria invenzione.

Jonathan ama gli oggetti precinematografici: l'animazione del ritratto nella cornice che regala a Tom, il praxinoscopio e lo stereoscopio regalati al figlio, la lanterna con il dipinto del treno, la stessa arte dell'incorniciare (che corrisponde a creare inquadrature); evidenti risultano poi il suo amore e la sua competenza nei confronti di un linguaggio dell'immagine come la pittura, oggetto di indagine e di percezione estetica e non di freddo commercio come invece è per Ripley. Tutte caratteristiche, queste, che possono essere riportate facilmente al piano dello scontro fra un cinema che risponde all'esigenza di interpretare la realtà e il cinema divenuto macchina commerciale.

Non meno interessante è, infine, la valenza simbolica del rapporto affettivo tra i due personaggi: da una parte il parassitismo sentimentale di Ripley che invidia la semplicità e normalità di Jonathan, dall'altra la subalternità non priva di orgoglio di quest'ultimo. Come ha affermato Jean Narboni, "L'amico americano può dunque essere letto come una domanda indirizzata da Hollywood all'Europa: "Io non valgo molto, dammi il supplemento di anima che mi manca". In una parola: "Amami"

Il film si configura come un'ulteriore e particolare tappa della ricerca operata da Wenders all'interno della scrittura cinematografica; Alice nelle città e Nel corso del tempo avevano costituito una fuga dall'ortodossia del linguaggio. A tal proposito, Bernardo Valli ha chiamato "sguardo empatico" il procedimento con il quale il regista "va alla ricerca dei significati incastrati nell'oggettività del mondo della vita". Ne L'amico americano si fa più evidente la dialettica interna all'opera di Wenders, tra genere e linguaggio codificati da una parte e infinite possibilità di rappresentazione della realtà, dall'altra. "Quello che mi ha attratto nel soggetto (...) non è la storia poliziesca. Non ho mai pensato di creare della suspanse, regola fondamentale del genere, non ho voluto far paura, bensì rappresentare la paura." Nelle sequenze precedentemente esaminate la volontà di rappresentare, ossia di rendere evidente e percepibile, la paura, non passa per il più usuale meccanismo di identificazione con il personaggio, ma attraverso un modo di raccontare straniante e debordante dalla linea narrativa. Al di là della superficie di suspanse, che pure viene mantenuta ben più intensamente che altrove, le sequenze finiscono per rivelare una pluralità di sensi, alcuni dei quali abbiamo cercato di intravedere.

Essendo stavolta Wenders interessato ad individuare l'oggetto di indagine nel cinema piuttosto che nella realtà, l'intero film risulta intriso di riferimenti metalinguistici. Esempio lampante: nella sequenza del treno, il trasparente viene esibito nella sua clamorosa falsità, ma potremmo rintracciare anche citazioni hitchcockiane (per esempio Stranger on a train). E non si può tacere di una metacinematograficità per così dire ontologica del film, proprio nel suo nascere sviluppando la storia contenuta in un romanzo la cui fabula si incentra sull'attesa della morte: non è forse il cinema l'arte di far rivivere i morti e conservare la loro memoria, l'arte preconizzata da quella della mummificazione, la stessa ?morte o lavoro'?

L'amico americano merita quindi il titolo di precursore rispetto a quegli altri film dell'ultimo decennio che hanno assunto il cinema stesso, la ricerca della sua essenza e i meccanismi della visione come propri oggetti privilegiati. La terza fatica della trilogia americana si rivela quindi profonda riflessione sulla ?storia' e sul ?discorso' della narrazione cinematografica, sulla possibilità di forzarne i meccanismi narrativi e sulla inesorabilità della dialettica tra cinema d'autore e cinema-industria; ma forse il centro di questa riflessione appartiene ad una sfera più precisamente etica: come può un attore cinematografico sopravvivere come Ripley e sentire come Jonathan? Sfidare Hollywood con la mentalità di Wim Wenders e riuscire a dominare i meccanismi? "Ripley è un tipo poco raccomandabile, ma grazie a dennis Hopper è diventato molto più umano e sopportabile di quanto non fosse nel romanzo (...). Anche in questo caso accetterei qualche lato di Ripley come fosse mio".

[Francesco Falaschi

da WIM WENDERS il cinema dello sguardo, quaderni della Mediateca Regionale Toscana, Loggià de' Lanzi, giugno 1995, pp192, L. 25.000]

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