Quattro passi tra le nuvole
Alessandro Blasetti
Italia
1942
Arturo Bagaglia
Silvio Bagolini (suonatore girovago)
Adriana Benetti (Maria)
Oreste Bilancia
Gildo Bocci
Paolo Bonecchi
Anna Carena
Guido Celano (Pasquale)
Gino Cervi (Paolo Bianchi)
Ada Colangeli
Pina Gallini
Lauro Gazzolo (controllore ferroviario)
Luciano Manara
Armando Migliari
Giacinto Molteni (Don Matteo)
Virgilio Riento (viaggiatore corriera)
Giuditta Rissone (Clara Bianchi)
Carlo Romano (autista corriera)
Umberto Sacripante (suonatore girovago)
Margherita Seglin (donna Luisa)
Mario Siletti
Aldo Silvani (Don Luca)
Enrico Viarisio (compagno di viaggio)
Piero Tellini
Casare Zavattini
Giuseppe Amato
Alessandro Blasetti
Aldo De Benedetti
Pietro Tellini
Cesare Zavattini
Vaclav Vich
Alessandro Cicognini
Mario Serandrei
90
Giuseppe Amato, Cines
Enic
Come ogni mattina, Paolo Bianchi, commesso viaggiatore in dolciumi, che vive in un palazzo popolare di periferia con una moglie petulante e i figli, si alza di buon'ora per compiere il suo giro in provincia. Deve prendere un autobus sempre affollatissimo, poi un treno altrettanto carico di viaggiatori e infine una corriera che non rispetta affatto gli orari. Un giorno, sul solito treno, incontra una ragazza di campagna, Maria, che torna a casa dai genitori, dopo aver vissuto una triste esperienza in città: è stata messa incinta e poi abbandonata. Ella teme la reazione dei suoi, gente di campagna, all'antica e prega Paolo di aiutarla. In un primo momento l'uomo è riluttante, ma la grazia e l'innocenza della ragazza lo inducono ad accettare di presentarsi ai genitori di lei come legittimo consorte, almeno per le prime ore del ritorno. Ben presto, però, l'inganno è scoperto. La ragazza sta per essere scacciata di casa. Allora Paolo esorta alla comprensione il padre di Maria e, non senza rimpianto, se ne torna a casa. I suoi «quattro passi tra le nuvole» sono finiti. A casa lo accoglie la voce sgradevole della moglie che lo invita a mettere a bollire il latte per i bambini. Paolo versa meccanicamente il latte nel tegame, poi, all'improvviso, si sente male.
Se non proprio Blasetti, a liquidare il mito del duce-padre ci penseranno le dure repliche della storia. Il consenso al regime aveva raggiunto il suo apice con l'impresa d'Etiopia. Da lì era iniziata la fase calante, accentuata dalle prime «imprese», nella seconda guerra mondiale, del regio esercito, che rivelarono la retorica e la falsità sottese agli otto milioni di baionette. In tale situazione non deve stupire che «Quattro passi tra le nuvole» costituisca una svolta radicale rispetto ai precedenti film del regista (basti pensare, tanto per restare in tema di figure virili, a Gino Cervi, attore prediletto di Blasetti: dopo essere stato eroico ufficiale di marina in «Aldebaran», invincibile soldato in «Fieramosca», beffardo amico del popolo in «Salvator Rosa», re folle, ma non privo di una sinistra grandezza in «La corona di ferro», eccolo ora commesso viaggiatore in dolciumi. Tuttavia, la svolta verso i toni dimessi e quotidiani non era frutto della delusione provata da Blasetti per «l'inganno fascista» ma, piuttosto, un segno dei tempi.
Il regista, in realtà, non fece una scelta d'autore, ma in un certo senso fu scelto, e accettò di mettere la sua professionalità al servizio del film. Lui stesso, del resto, conferma di essere arrivato a «Quattro passi tra le nuvole» in modo casuale. Era reduce da una serie di progetti, appartenenti per lo più al filone in costume, andati a vuoto: un film su «Francesca da Rimini»; una rievocazione dei «Vespri siciliani»; una riduzione della «Figlia di Iorio», da lui scartata e infine «Harlem» che doveva esaltare le virtù dei nostri emigrati e fu poi diretto da Gallone. Dopo tante iniziative abortite, Peppino d'Amato, d'accordo con Freddi gli sottopose una rosa di copioni, tutti respinti, fino a che gli «capitò tra le mani» quello di «Quattro passi tra le nuvole». Il regista lo scelse, essendo «ben lungi dal pensare - sono parole sue - di star facendo un film che si sarebbe inserito nella corrente neorealistica».
Si tratta di un film di viaggio, ma non è un viaggio verso la rinascita, come i precedenti di Blasetti. E ciò non solo perché in «Quattro passi tra le nuvole» non c'è proprio niente di epico e tanto meno di celebrativo, ma soprattutto perché Paolo Bianchi non viaggia dalla periferia di una città qualunque a un non precisato posto di campagna, bensì sogna di viaggiare: la dimensione onirica, del resto, è richiamata anche dal titolo.
Ma c'è di più, il film si apre e si chiude in due momenti cronologici identici (un mattino e quello successivo), nello stesso luogo e nella medesima situazione: già ciò ci induce a dubitare che il protagonista abbia solo sognato.
Il dubbio diviene quasi certezza se pensiamo che le due parentesi urbane che racchiudono il film sono estremamente realistiche, mentre il viaggio in campagna è palesemente ricostruito, fittizio: un sogno, appunto.
La messa in scena ha qui un'importanza decisiva, ed altrettanta ne ha nel farci comprendere che lo sguardo di Blasetti sul rapporto conflittuale città/campagna è mutato. Il realismo dell'inizio e del finale si scontrano con l'«artificialità» pressoché esibita del mondo rurale che è ulteriormente rafforzata dalla teatralità delle situazioni e della recitazione sopra le righe. Se dunque la città è luogo del reale, la campagna lo è dell'irreale; alla coppia oppositiva città-campagna si sostituisce il binomio realtà-finzione.
Il cittadino non entra in contatto con un ambiente che lo rigenera ma soltanto con un mondo fittizio, arcadico nel vero senso della parola. E l'Arcadia - dice il film - non esiste, è pura finzione, messa in scena, o meglio il sogno di un commesso viaggiatore frustrato.
Blasetti liquida l'ipotesi ruralista e approda a una totale assenza di certezze: poiché se la salvezza non può venire dalla campagna, tanto meno potrà nascere nella cupa, oppressiva, alienante città.
Un pessimismo tanto radicale riflette i tempi bui della guerra ed è in particolare sintomo dello smarrimento della società italiana di fronte al grande processo avviato dall'urbanizzazione e dall'abbandono delle campagne.
Fenomeno cui Blasetti aderisce col «massimo di partecipazione affettiva».
[Scheda tratta da: «Alessandro Blasetti», di Gianfranco Gori, ed. Il Castoro Cinema.]